In Italia la tutela indennitaria delle vittime di reati intenzionali violenti (omicidi e lesioni personali “comuni”, violenze sessuali) non ha mai costituito una priorità per nessun governo. Neppure per l’attuale Esecutivo: il decreto ministeriale di Minniti, Orlando e Padoan, in vigore dallo scorso 11 ottobre, offende le vittime stabilendo degli indennizzi ridicoli, autentici oboli statali.
Per l’uccisione dolosa il decreto riconosce ai famigliari un massimo di euro 8.200. Ad una ragazza stuprata spettano non più di euro 4.800.
Italia da sempre inadempiente verso le vittime
Per apprezzare la gravità della presa in giro operata dal decreto occorre considerare le precedenti tappe.
La Convenzione europea del 1983, intervenuta per prima a tutelare le vittime laddove non risarcite dai rei, non fu ratificata dall’Italia e non lo è ancora oggi.
Nel 2002 la Commissione Europea, attivatasi per rafforzare la tutela delle vittime, tenne le audizioni finali sul Libro Verde Risarcimento alle vittime di reati. Per l’Italia non partecipò nessun rappresentante. Il ministro Castelli addusse “la necessità di operare dolorose selezioni degli impegni” a fronte di “una disponibilità limitata di risorse umane”.
La direttiva 2004/80/CE sancì poi per ogni Stato il dovere di garantire un “indennizzo equo ed adeguato” alle vittime di reati intenzionali violenti occorsi sul suo territorio, allorquando impossibilitate ad ottenere un risarcimento dal reo in quanto privo di risorse economiche od ignoto.
La direttiva fissò due termini: entro il 1° luglio 2005 l’Italia avrebbe dovuto attuare il suo “sistema di indennizzo nazionale” per tutte le vittime di crimini occorsi sul suo territorio (sia quelle residenti che quelle in transito); entro il 1° gennaio 2006 avrebbe dovuto approvare le procedure per facilitare le vittime straniere nell’accesso a tale sistema. L’Italia non rispettò tali termini.
L’Italia già condannata nel 2007
Nel 2007 la Corte di Giustizia emise una prima condanna, ma i governi successivi continuarono a non apprestare il sistema di indennizzo nazionale.
Le vittime iniziarono a fare causa alla Presidenza del Consiglio dei ministri in base al principio per cui i cittadini hanno diritto ad agire contro il proprio Stato che non attua le disposizioni comunitarie. Nel 2010 il Tribunale di Torino condannò la Presidenza del Consiglio del governo Berlusconi a risarcire una ragazza sequestrata e violentata da due aguzzini poi scappati. Seguirono altre pronunce simili.
A stimolare l’adempimento non servì neppure la Convenzione di Istanbul (2011) che impone di assicurare alle vittime di violenze sessuali o domestiche “un adeguato risarcimento… se la riparazione del danno non è garantita da altre fonti, in particolare dall’autore del reato, da un’assicurazione o dai servizi medici e sociali finanziati dallo Stato”. Eppure la ratifica della Convenzione fu celebrata in pompa magna da Parlamento e Governo.
La nuova condanna dell’Italia
Nel 2011 la Commissione Ue, dinanzi alle denunce di vittime lasciate senza un indennizzo “in situazioni nazionali o transfrontaliere”, avviò una nuova procedura di infrazione contro l’Italia. Nel 2014, insoddisfatta dalle nostre risposte, la stessa avviò il deferimento alla Corte di Giustizia, ribadendo che “l’indennizzo dovrebbe essere possibile tanto nelle situazioni nazionali quanto in quelle transfrontaliere”.
L’Italia sostenne che la direttiva non l’avrebbe obbligata a garantire indennizzi per tutti i reati dolosi violenti e non sarebbe valsa per i suoi cittadini, discriminabili in peius rispetto agli stranieri in transito nel nostro Paese. In pratica l’Italia tentò di sottrarsi alla condanna con una tesi assurda: la direttiva non avrebbe protetto le persone lese nel proprio Stato di residenza. Per esempio, secondo il governo Renzi, la direttiva lo avrebbe legittimato a discriminare fra una ragazza italiana e una turista olandese violentate sul nostro territorio, lasciando la prima priva di tutela e proteggendo solo la straniera.
La Corte ha respinto questa tesi con sentenza dell’11 ottobre 2016: la direttiva “mira a garantire al cittadino dell’Unione il diritto di ottenere un indennizzo equo ed adeguato per le lesioni subite nel territorio di uno Stato membro nel quale si trova…, imponendo a ciascuno Stato… di dotarsi di un sistema di indennizzo delle vittime per ogni reato intenzionale violento commesso sul proprio territorio”.
La legge del 2016: ancora nessun indennizzo per le vittime
Nel luglio 2016 il Parlamento, per scongiurare la condanna della Corte, licenziò la legge n. 122, che dichiarava di introdurre la tutela prevista dalla direttiva. Sennonché per l’accesso agli indennizzi la legge prevedeva intralci vessatori; soprattutto rinviava la determinazione delle indennità ad un decreto da emanarsi entro sei mesi.
Dunque non corrispondeva al vero quanto riportato dal comunicato stampa del ministro Orlando all’indomani della condanna: “Indennizzo vittime reati: sentenza Corte Ue su norme precedenti, ora Italia in regola”. Mancando ancora il decreto ministeriale, l’Italia non era in regola! Però il ministro ammetteva “il sacrificio ai diritti individuali che in tutti questi anni si è consumato” malgrado il “principio secondo il quale tutti i crimini violenti intenzionali devono dare accesso a un indennizzo”.
Dinanzi a queste dichiarazioni ci si sarebbe aspettati un’emanazione tempestiva del decreto, invece firmato soltanto il 31 agosto 2017, poi pubblicato il 10 ottobre.
Gli importi del decreto-beffa
Ritardi a parte, la doccia fredda sono gli importi meschini individuati dai ministri: per l’omicidio doloso la somma fissa di euro 7.200 da dividersi fra tutti i superstiti (8.200 per l’omicidio commesso dal coniuge o da persona legata da relazione affettiva); per la violenza sessuale euro 4.800; per le lesioni personali dolose solo la rifusione delle spese mediche/assistenziali entro il massimo di euro 3.000, senza differenza tra una persona con una cicatrice ed un tetraplegico.
I soldi non restituiscono le persone, la salute o la dignità. Però il legislatore Ue ha imposto di riconoscere indennizzi “equi ed adeguati”. Equità ed adeguatezza sono concetti relativi da confrontarsi con gli standard risarcitori e indennitari esistenti. Anche a non considerare i livelli dei risarcimenti (incommensurabilmente superiori) emergono impressionanti differenze con altri indennizzi: ai famigliari della vittima di terrorismo o della criminalità organizzata è data la somma di euro 200.000,00; agli eredi delle vittime del disastro (colposo!) del Cermis del 1998 fu riconosciuto l’importo di euro 1.960.000,00 per persona deceduta.
Peraltro, l’assenza di tutela delle vittime di lesioni personali (salvo il limitato rimborso delle spese mediche) stride con la legge n. 117/2014 che appresta rimedi risarcitori per i detenuti con stanziamenti maggiori a quelli previsti per le vittime. Il carcerato costretto in una cella angusta può aspirare ad un risarcimento che non è garantito alla sua vittima, magari relegata a letto per il resto della sua vita. La tutela del primo è sacrosanta; ma dovrebbe risultare tale anche quella della vittima e dei suoi famigliari.
In definitiva il decreto è iniquo e pure perverso: nella consapevolezza di avere istituito un percorso ad ostacoli e requisiti assurdi (per esempio la persona stuprata può accedere all’indennizzo solo se non ha ricevuto aiuti economici di sorta, neppure dai suoi famigliari), pone alla fine dell’iter delle somme grottesche, tali da non giustificare costi e sforzi per conseguirle.
Tutto ciò non potrà che offendere le vittime e costringerle a nuove cause, giacché è certo che gli indennizzi previsti non sono equi ed adeguati. Ma intanto questo sarà un problema per i prossimi governi e parlamentari, ragionamento che accompagna i nostri politici in ogni ambito.