La polizia cinese avrebbe arrestato diversi agenti nordcoreani inviati a Pechino per uccidere il nipote 22enne di Kim Jong Un, ha riferito il giornale sudcoreano JoongAng Ilbo. Secondo la versione circolata, due agenti di Pyongyang — su un totale di sette — sarebbero stati arrestati dai cinesi per un presunto complotto teso a uccidere Kim Han Sol, figlio di quel Kim Jong Nam che è stato assassinato in Malesia all’inizio di quest’anno.
Non è chiaro che fine avrebbero fatto gli altri cinque killer. La squadra sarebbe stata composta da un gruppo d’azione, uno di appoggio e un’unità con il compito di identificare l’ubicazione di Kim Han sol – che risiede nella capitale cinese – e di ostacolare le successive ricerche delle forze di sicurezza. Il motivo del tentato assassinio potrebbe essere la volontà, da parte di Kim, di eliminare qualsiasi pretendente al “trono” nordcoreano, che da tre generazioni si tramanda per linea di sangue.
Il giornale sudcoreano cita una fonte non identificata che però avrebbe familiarità con le questioni nordcoreane. Spesso, va detto, le fonti dei media di Seul sono i servizi della stessa Seul, quindi le informazioni vanno prese con le molle. “Speciali operativi appartenenti alla squadra di ricognizione della Corea del Nord sono penetrati [in Cina] per rimuovere Kim Han-sol, ma alcuni di loro sono stati arrestati la scorsa settimana dal ministero cinese della sicurezza nazionale e sono attualmente sotto inchiesta presso strutture fuori Pechino”, dice il giornale. Il ministero degli Esteri cinese per ora non si pronuncia, ma la trama sarebbe stata scoperta grazie alle speciali misure di sicurezza introdotte in occasione del 19° Congresso del Partito comunista di Pechino, cominciato il 18 ottobre e durato una settimana.
Per l’assassinio di Kim Jong Nam sono ora sotto processo in Malesia due donne, una vietnamita e una indonesiana. Ma il fratellastro di Kim Jong Un – che di recente ha cooptato la propria sorella 28enne Kim Yo Jong nella ristretta cerchia Politburo nordcoreano – non è l’unico familiare che ha fatto una brutta fine: nel 2013, un giovane Kim passò per le armi suo zio Jang Song Thaek, accusato di corruzione e scissionismo. Quello fu probabilmente un momento di non ritorno nei rapporti con la Cina, che continua a supportare il regime nordcoreano per ragioni geopolitiche ma che non ha mai invitato Kim Jong-un a Pechino.
Proprio il gelo crescente tra Cina e Corea del Nord starebbe spingendo Pyongyang nelle mani della Russia, secondo un articolo di Associated Press, che cita i due recenti viaggi di Choe Son Hui, direttore generale dell’ufficio nordamericano al ministero degli Esteri della Corea del Nord, a Mosca. Nell’ultimo viaggio, Choe ha parlato di non proliferazione nucleare a una tavola rotonda a cui ha partecipato anche un esperto statunitense non governativo. Ad aprire l’evento, il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov.
L’avvicinamento di Pyongyang alla Russia crea ovviamente grande imbarazzo a Washington, dove si riconosce il ruolo di intermediario che potrebbe svolgere Mosca, ma dove i dossier russo e nordcoreano giacciono accanto e suscitano interrogativi e mal di pancia. Da un lato, assistiamo ormai da mesi all’escalation di insulti tra Donald Trump e Kim Jong-un; dall’altro, il Dipartimento di Stato ha minacciato venerdì scorso di compilare una lista nera di Paesi che fanno affari con decine di imprese russe, mentre continuano le indagini sulle presunte interferenze di Mosca nelle elezioni presidenziali dello scorso anno. Insomma, Washington deve sempre più guardare alla Russia come partner nel suo tentativo di isolare Pyongyang o riportarla a più miti consigli, ma al tempo stesso è ai ferri corti con la stessa Mosca.
Quanto alla Cina, se fosse vera la notizia del tentato assassinio di Kim Han Sol da parte dei servizi nordcoreani, si troverebbe di fronte all’ennesima provocazione di un sempre più teorico alleato, che sta tirando eccessivamente la corda. L’omicidio di Kim Jong Nam a Kuala Lumpur, mentre stava imbarcandosi verso il territorio cinese di Macao ed era teoricamente sotto protezione dei servizi cinesi, è uno schiaffo bello e buono che Pechino ha fatto finta di ignorare. Ora però la minaccia sembrerebbe arrivare nella stessa capitale cinese e Kim darebbe l’impressione di agire senza riguardo alcuno, spinto da un solo obiettivo: eliminare qualsiasi minaccia al proprio potere personale.