È tornata alla ribalta ieri la notizia che il famoso cavallo donato da Ulisse ai troiani dopo dieci lunghi anni di assedio in realtà non era un cavallo, bensì una nave. A dircelo è un ricercatore dell’Università di Aix-en-Provence e Marsiglia, Francesco Tiboni, secondo il quale l’equivoco è nato a causa di un fraintendimento nella traduzione dal greco. Nel greco antico, infatti per dire “cavallo” si usava la parola hippos, ossia la stessa con cui si indicava un tipo di nave fenicia la cui polena era intagliata in forma di testa equina. Ergo, il cavallo di Troia era una nave.
A dire il vero già a qualcun altro, prima del professor Tiboni, il dubbio era venuto. Pausania, nel II secolo d.C., nella sua Periegesi della Grecia, scrisse che “chiunque non consideri il popolo troiano incredibilmente stupido sa che il cavallo era una macchina d’assedio”. Da ciò deriva la scarsa opinione di cui, a naso, hanno goduto i troiani in questi ultimi duemila e rotti anni. In effetti, secondo la leggenda, la “macchina d’assedio” venne abbandonata dai greci nei pressi della spiaggia di fronte a Troia. Più facile immaginare che fosse una nave. Più suggestivo (molto di più) credere che fosse un cavallo. Il cuore della questione a mio avviso sta tutto qui.
L’episodio viene riportato con dovizia di particolari nell’Eneide di Virgilio:
Stremati dalla guerra e respinti dai fati,
i capi dei Danai, trascorsi ormai tanti anni,
per divina arte di Pallade costruiscono un cavallo
a misura di monte e ne intessono i fianchi di abete;
simulano un voto per il ritorno, la fama si sparge.
Qui rinchiudono di frodo nel fianco oscuro prescelti
corpi di eroi designati a sorte, e le vaste
profonde caverne del ventre riempiono d’uomini armati.
Virgilio deduce l’episodio da Omero, e lo amplia. Ma Virgilio non era uno storico, era un poeta. Come tale, a lui non interessava la fedeltà ai fatti, o perlomeno questa non era la sua priorità. A un poeta interessa in primo luogo che la sua storia, per usare un termine caro all’industria editoriale contemporanea, funzioni. Ora, noi non sappiamo come sia andata per davvero, ossia non sappiamo se Virgilio, trovatosi di fronte alla famigerata parola hippos, fosse a conoscenza del suo duplice significato.
Egli conosceva senz’altro il greco, ma scriveva in latino per un pubblico che parlava latino. Tuttavia, poniamo il caso che Virgilio conoscesse il tipo di nave fenicia chiamata Hippos. “Per divina arte di Pallade costruiscono una nave / a misura di monte e ne intessono i fianchi di abete”. Ci sembra quasi di vederla, è una descrizione di un fine realismo: i fianchi intessuti con legno d’abete descrivono la curva dolce del profilo della nave, alta come una montagna, nel cui “fianco oscuro” si nascondono gli eroi.
Al cospetto di una tale descrizione, i lettori latini dovevano trovarsi già lì con la sola immaginazione: dentro la stiva della nave, assieme agli eroi nascosti nel buio, l’uno al fianco dell’altro, che aspettano frementi il momento della battaglia, il proprio destino. Ma a questo punto immaginiamo che Virgilio dica a se stesso: “Un momento, mi è venuta un’idea migliore. Facciamo finta che qui hippos voglia dire per davvero cavallo. Un cavallo, signori! Alto come un monte, e con fianchi intessuti con legno d’abete!”. E allora prende forma uno scarto nel testo, l’opera smarrisce un poco di verosimiglianza, ma ne guadagna in incanto.
Ecco una visione che desta meraviglia: un cavallo di legno, un gigantesco cavallo che sosta sulla riva del mare. Ecco la poesia. Un’immagine infinitamente più potente: nello sciabordio della risacca giace questa finta bestia venuta da chissà dove, in attesa, sopraggiunta come un dono. Nessuno di noi lettori, scorgendo una nave attraccata nei pressi di una costa, proverebbe stupore. Non c’è in un’immagine simile nulla che generi sconcerto, sortilegio, delizia, poiché in essa non c’è una sola cosa fuori posto.
La poesia, invece, è l’arte dello spostamento.
Diceva Gómez Dávila che essa (la poesia) sopravvive perché il cuore umano è l’unico recesso del mondo che la ragione non osa invadere. E perché mai Virgilio, il più grande poeta latino di tutti i tempi, doveva permettere alla ragione di invadere il proprio cuore? Perché quindi una nave (la ragione), quando il gioco dei sinonimi è lì a suggerirci qualcosa di meglio, qualcosa che ben si attaglia, appunto, al cuore? Perché non un… cavallo?
La storia è corrotta dalla poesia. Pensiamo all’iconografia religiosa, santi immortalati come angeli o come guerrieri, episodi storici tramandati come miti. Il mito stesso, del resto, altro non è se non una narrazione investita di sacralità che serve a soddisfare dei bisogni umani, bisogni che la storia nuda e cruda da sola non riesce a soddisfare. Non so dire se l’intuizione del professor Tiboni, o di quanti prima di lui hanno messo in dubbio il mito, sia esatta o meno. Quel che so è che fra mille anni si parlerà ancora dell’inganno del cavallo, e nessuno dirà “la nave di Troia”, Ulisse e gli eroi Acamante, Toante, Neottolemo, Macaone e Menelao, e lo stesso fabbricatore dell’inganno, Epeo, discenderanno ancora e ancora, per mille anni, lungo una fune dal fianco di un cavallo – e non d’una nave di fabbricazione fenicia – e invaderanno Troia “sepolta nel sonno e nel vino”.
E tutto questo per una ragione assai banale: perché è molto più bello pensare che sia andata così.