di Floro Ernesto Caroleo e Francesco Pastore
Chi vuole esaltare la capacità del mercato di determinare bassi tassi di disoccupazione mostra come questi si riscontrino proprio nei paesi campioni del liberismo come Hong Kong, Singapore, Australia, Cile. Noi pensiamo, invece, che si possa raccontare un’altra storia. Senza andare a scomodare paesi lontani (per distanza e istituzioni) da noi possiamo prendere ad esempio il Trentino Alto Adige. La Regione ha il più alto tasso di occupazione, il più basso tasso di disoccupazione d’Europa e un’elevata crescita economica. Questo risultato è dovuto alle politiche di incentivazione dell’innovazione, favorendo la nascita di università, centri di ricerca, laboratori e aziende a tecnologia avanzata e in particolare della green economy.
Possiamo pensare a una politica di investimenti a livello nazionale che serva a migliorare la qualità dell’offerta di lavoro? Per rispondere si consideri che in Italia la probabilità che un laureato sia occupato è quasi due volte e mezzo maggiore di chi ha la licenza media. Addirittura, stando ai dati Istat, al Sud la probabilità che una donna laureata sia occupata è quasi sei volte maggiore. L’istruzione, quindi, paga in termini di maggiore probabilità di occupazione. Esiste allora una strada percorribile per affrontare il problema: investire in capitale umano.
Il rendimento economico dell’investimento in conoscenza, sia per gli individui che per la collettività, è indubbio. I rendimenti di tali investimenti sono più alti di quelli in infrastrutture, e possono giocare un ruolo chiave per lo sviluppo delle regioni meridionali. A ciò si aggiunge che gli incentivi finanziari agli investimenti in istruzione, e le spese pubbliche connesse, nel lungo periodo hanno la capacità di autofinanziarsi.
Non si tratta solo di obiettivi quantitativi, è necessario anche puntare sugli aspetti qualitativi. Se si dovesse, per esempio, discutere di investimenti in istruzione universitaria si potrebbero prendere in considerazione due problematiche. Lo scopo del cosiddetto processo di Bologna (organizzazione del ciclo universitario in tre anni+ due), oltre che abbreviare i tempi di conseguimento del titolo di studio e ridurre gli abbandoni, era anche di coniugare la preparazione metodologica-culturale con una formazione fortemente professionalizzante al fine di dare la possibilità allo studente di inserirsi immediatamente nel mondo del lavoro.
A distanza di più di 15 anni, non sembra che questo aspetto della riforma sia stato ancora raggiunto. Una serie di fattori ha trasformato una riforma importante e ben congegnata in un boomerang, a causa di un’applicazione sconclusionata: mancanza di percorsi pienamente professionalizzanti al triennio, duplicazione dei programmi fra triennio e biennio, mancato riconoscimento del triennio ai fini dell’accesso al lavoro. Lo stesso corpo docente non sembra aver compreso a pieno come i vari cicli (triennale, biennale, master, dottorato ecc.) debbano essere strutturati al fine di raggiungere un miglior collegamento con il mercato del lavoro in ciascun di essi. In sostanza, si ragiona ancora come se l’istruzione universitaria debba essere a ciclo unico.
Se quindi si volesse investire nel sistema universitario sarebbe utile programmare corsi di studio professionalizzanti, ovvero volti a fornire competenze professionali immediatamente spendibili nel mercato del lavoro. In questo modo si potrebbe raggiungerebbe l’obiettivo di abbreviare i tempi per la laurea con un indubbio beneficio in termini di costi economici e sociali.