Leggere l’annuale rapporto confezionato da Cask Marque, la commissione sorta una ventina di anni fa nel Regno Unito per tutelare produttori e bevitori di real ale attraverso il costante monitoraggio della cura dei publicans nel servire la pinta inglese dai tradizionali fusti cask, consente di avere un’istantanea dettagliata sulla produzione artigianale di birra a Londra e dintorni e sulla sua percezione da parte dell’affezionata popolazione dei bevitori di pub.
L’edizione 2018 del Cask Report ha lo svantaggio, questa volta, di non offrire un’immagine nitida e univoca: se infatti da una parte magnifica le rose di un’offerta mai così ampia (un’ulteriore crescita nel numero di birrifici in Regno Unito, 1700 ad oggi; la soddisfazione del 69% del pubblico, contenta della diversità e della qualità dei prodotti), il rapporto non riesce però a nascondere del tutto le spine di un settore evidentemente in sofferenza. Non solo sbattono per sempre a terra con maggiore frequenza, in un fragore triste, le saracinesche dei locali, con 5mila pub (il 10% circa del totale) chiusi negli ultimi 6 anni, ma il lento declino nella vendita di pinte non si arresta nemmeno quest’anno, anzi registra un preoccupante picco negativo. È stato infatti servito il 5% di cask ale in meno nell’ultimo quinquennio, e solo nel 2016 il calo è stato del 3,8%. È vero che a retrocedere è l’intero reparto birra, con percentuali molto più severe nel caso delle lager (-11%), ma il campanello d’allarme principale, per un’istituzione culturalmente orientata come Cask Marque, suona nella condizione con la quale l’autentica cask ale viene servita al giorno d’oggi. Secondo un dato contenuto nel rapporto, ad oltre due inglesi su tre è stata offerta una “pinta cattiva”, e cioè contenente uno o più dei numerosi difetti che contaminano questo tipo di birra nel suo delicato percorso dal birrificio al bicchiere: carbonazione assente, aromi o gusti sgradevoli, mancanza di limpidezza se non espressamente ricercata, sentori off, temperatura non adatta, e giù, lungo la lista di quello che una cask ale non deve mai essere.
È qui, in fondo, che si gioca la sfida della pinta che Cask Marque tutela e difende, e la sua capacità di resistere al tempo nella disputa tra innovazione e tradizione. Lo aveva già previsto Pete Brown, intelligente autore e acuto esperto del mondo delle ale nonché curatore per tanti anni del Cask Report, quando lo scorso gennaio aveva scioccato gli addetti del settore dichiarando di non bere più cask se non nei pochissimi locali di cui conosceva professionalità e rigore. E sul tema aveva già preso una posizione netta, tombale, solo poche settimane prima, un importante birrificio quale Cloudwater, confermando di abbandonare per la distribuzione delle proprie birre l’uso del cask, il caratteristico fusto inglese all’interno del quale la birra rifermenta, nelle cantine dei pub dove è servita. Per giustificare la scelta Cloudwater non aveva solo addotto ragioni puramente economiche ma anche di qualità, non ritenendo più sufficienti le garanzie di vedere rispettato adeguatamente il proprio prodotto.
La birra contenuta nei cask non è pronta per essere immediatamente servita, quando esce dai cancelli dei birrifici per entrare nelle cantine dei locali: qui infatti deve essere trattata e posizionata stabilmente per attivare una seconda fermentazione, possibile grazie all’assenza di processi di pastorizzazione e filtrazione. Una volta rilasciata l’anidride carbonica in eccesso, prodotta dai lieviti durante questa rivitalizzazione avviata nel pub, il gestore del locale giocherà sul delicato equilibrio tra costi, ricavi e qualità per garantire una perfetta temperatura di servizio (tra i 10 e i 14 gradi), adeguata carbonazione naturale oltre che igiene e pulizia impeccabile nelle linee, ed evitare rischi di ossidazione: tutto all’interno del breve lasso di tempo entro il quale questa complessa, meravigliosa, freschissima birra può essere servita, ovvero due o tre giorni dall’apertura del cask per gran parte degli stili.
Ora, non è raro veder spuntare anche dai banconi dei locali italiani l’hand pump, il pistone che succhia la birra dai cask, o notare un sistema a caduta grazie al quale la birra scende per gravità dai fusti; e sono inoltre diversi i produttori di casa nostra che proprio sul cask e sugli stili più squisitamente anglosassoni giocano la loro scelta, ispirazione, reputazione e eccellenza (solo a titolo di esempio si può citare Hilltop, dalla provincia di Viterbo, miglior emergente nell’edizione 2016 del Birraio dell’anno). Servire un’autentica cask ale può dare enormi soddisfazioni ma, come ci ricorda il rapporto di Cask Marque, richiede cura e maestria, passione e tecnica. Contro chi ancora, parlando di bitter, mild e pale ale servite da cask, le bolla come sgasate e calde, si può opporre con professionalità un modo intenso, profondo e diretto per gustare la birra, dal fusto al bicchiere, attraverso il rispetto di ogni singolo, delicato passaggio. Perché, come si dice in Boemia, dalle parti di Plzeň, se è il birraio che produce la birra, è altrettanto vero che sia chi la versa a farne una pinta.