E’ vero che a fine legislatura si fa in tempo a fare leggi che sono rimaste ferme in qualche cassetto e adempiere così magari a qualche lontana promessa, ma occorre sempre, prima di partorire una legge, verificarne la fattibilità, l’utilità, l’equità, la sostenibilità. E non è tutto ancora, perché su tutto questo bisognerebbe poi verificarne gli effetti che presumibilmente si verrebbero a generare nell’evoluzione prevedibile di breve, di medio e di lungo termine.
Non è un discutibile sofisma, è un necessario esame che qualunque seria organizzazione (tanto più uno Stato) fa ogni volta che un importante cambiamento nella sua struttura si annuncia come necessario o probabile. Perché un conto è sistemare giuridicamente i casi eclatanti (dei bambini già integrati, ecc) e si può farlo benissimo aggiungendo qualche norma suppletiva alla legislazione attuale, altro conto è avviare una nuova legge che, anche nei casi “temperati” opera comunque con automatismi che produrrebbero nella società cambiamenti più o meno rapidi ma sicuramente importanti e con contenuti anche positivi sia sul piano demografico, con una ripresa nella crescita della popolazione, sia su quello economico perché la crescita riguarderebbe anche la base impositiva tassabile con tutto quello che ne consegue.
Ma non mancherebbero nemmeno diversi fattori negativi, il più importante dei quali è senza dubbio l’integrazione. In assenza di una prevedibile completa integrazione, l’accoglienza si trasformerebbe presto in mala-accoglienza (e questo già lo si vede in molti casi) da parte di chi deve accogliere i nuovi venuti, ma anche in pessima integrazione da parte di chi dovrebbe integrarsi. In entrambi i casi, lo Stato può fare qualcosa, ma non molto, per evitare questo fenomeno di “rigetto”.
Escludendo subito dalla casistica i “rifugiati“, per i quali l’obbligo dell’accoglienza è inderogabile, ma sui quali insiste comunque per intero la problematica della completa integrazione, essendo questi in numero limitato si potrebbe (per ora) presumere che la loro integrazione potrebbe avvenire nel tempo con piena soddisfazione di entrambe le parti. E’ invece assai dubbio che questo possa avvenire per tutta la categoria dell’immigrazione se ciò arriva a configurarsi (come in effetti sembra) in una crescita tanto forte quanto veloce.
In questo caso non ci può essere nessuna integrazione e l’effetto sarebbe disastroso da entrambe le parti. Non si può essere “buonisti” a qualunque costo, o perlomeno non può esserlo lo Stato che operi saggiamente col criterio del buon padre di famiglia. Certamente possono esserlo i casi individuali di chi, sul piano personale, può e vuole esserlo (tipico è il caso dei volontari e dei sacerdoti che, con grande spirito di solidarietà si impegnano a farlo) ma non può farlo lo Stato, perché se l’analisi di cui ho parlato all’inizio dice che non esistono le condizioni per un buon esito dell’intera operazione, esso deve, prima di procedere, rimuovere gli ostacoli che impediscono il successo dell’accoglienza.
Il fatto è, però, che la completa integrazione è una cosa difficilissima da raggiungere se deve avvenire tra etnie diverse con cultura diversa e religione diversa (ma purtroppo è proprio il caso della gran massa migratoria che arriva in Europa dall’Africa). Anzi, personalmente direi che è proprio impossibile. Io, pur non essendo un sociologo, so che esistono studi specifici con vari modelli (funzionalista, assimilazionista, multiculturale, ecc) che però nemmeno nella mia personale esperienza ventennale americana ho visto dare risultati completamente soddisfacenti a largo raggio.
Come ho già accennato in due precedenti post su questo tema, anche se in America l’integrazione etnica già avvenuta (ma solo nell’ultimo secolo) con un discreto grado di successo (i matrimoni misti oggi non sono rari e sono comunque bene accetti dalla società in generale) ma esistono tuttora grandi sacche di quasi segregazione con le diverse etnie (neri, bianchi, latini) che scelgono di segregarsi tra di loro spontaneamente anche se ci sono persino leggi e norme locali che cercano di impedirlo.
A volte è la semplice differenza reddituale a compiere il “misfatto”, ma anche nelle aree ricche delle città benestanti è facile trovare quartieri con forte prevalenza di questa o quella razza o di questa o quella cultura. Probabilmente la completa integrazione non ci sara’ mai o forse ci potrà essere solo in tempi molto lunghi (secoli).
E’ importante perciò creare le condizioni preliminari affinché non sorga nell’immediato la condizione di rigetto. E’ chiaro che queste condizioni sono la necessità di offrire subito ai nuovi arrivati un lavoro, un reddito e una casa. Che non siano discriminatori (ma un po’ lo sono sempre) e che non si concentrino tutti in località “ghetto”. Le esperienze francese, belga e inglese, che hanno generato diversi fenomeni di foreign fighters è significativa di questo fallimento.
Ma in un paese come l’Italia, che già vede la sua popolazione stanziale scivolare sempre più nell’area della povertà a causa di una crisi che non finisce mai, è praticamente impossibile trovare risorse adeguate per i tempi lunghi necessari a una perfetta accoglienza.
Il proposito del governo Gentiloni di pressare quindi il Parlamento ad approvare lo Ius soli temperato non ha alcun serio presupposto per essere seguito con convinzione e appare essere suggerito solo dalla speranza di ottenere in cambio dagli elettori fruitori della ottenuta cittadinanza un voto ristoratore (potrebbero essere fino a 800mila) capace di tenere a galla un partito che affonda.