di Chiara Soletti
Ginevra, marzo 2009. L’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite pubblica il primo rapporto sulla relazione tra diritti umani e cambiamento climatico un momento importante per la comunità internazionale, perché vengono riconosciute formalmente le conseguenze sociali, culturali ed economiche del fenomeno. I cambiamenti climatici esasperano la stato di discriminazione e povertà in cui si trovano milioni di persone, paradossalmente quelle che meno hanno contribuito alla creazione del fenomeno. Le donne dei paesi in via di sviluppo sono a tutt’oggi tra i gruppi maggiormente a rischio, con ricadute spesso drammatiche sulla loro salute sessuale e riproduttiva.
Eventi meteorologici improvvisi possono spingere le famiglie a far sposare precocemente le proprie figlie per assicurare loro un futuro a livello economico. Questo spesso comporta l’abbandono scolastico, e la possibilità di gravidanze precoci e pericolose, soprattutto in mancanza di accesso a strutture sanitarie adeguate.
La perdita degli ecosistemi e delle risorse fondamentali alla sopravvivenza può tradursi in un maggior carico di lavoro sulle donne per assicurare il sostentamento del nucleo familiare. Il lavoro domestico e di cura è ancora appannaggio prettamente femminile in moltissimi Paesi e camminare 10 chilometri in più ogni giorno per raccogliere dell’acqua può tradursi in un aborto spontaneo o in parti prematuri con complicazioni potenzialmente fatali.
Le donne hanno maggiori probabilità di soffrire di malnutrizione perché esistono ancora comunità in cui ci sono gerarchie in ambito nutrizionale, per le quali gli uomini hanno la precedenza sulle risorse alimentari. Secondo la FAO, nel sud e sud-est asiatico, il 45-60% delle donne in età riproduttiva è al di sotto del loro peso normale e l’80% delle donne in gravidanza presenta carenze di ferro.
Tutto questo avviene a causa di regole culturali e discriminazioni che definiscono il ruolo di genere della donna, determinandone la capacità di affrontare situazioni di rischio. Eppure le donne, grazie alla conoscenza profonda delle loro comunità e al loro ruolo nella riproduzione, sono al centro dello sviluppo e della possibilità di costruire una maggiore resilienza al cambiamento climatico.
Secondo i dati della World Health Organisation oltre 200 milioni di donne nel mondo non hanno accesso ai contraccettivi moderni. Di conseguenza, ogni anno si verificano 76 milioni di gravidanze non intenzionali con costi umani ed economici elevatissimi. Evitare una gravidanza o una malattia infettiva durante un periodo di scarsità di risorse o durante un evento catastrofico significa garantire maggiore sicurezza e indipendenza economica a una donna e alla sua famiglia. Ovviare a questo problema potrebbe inoltre rallentare gli elevati tassi di crescita della popolazione, riducendo così la pressione demografica sull’ambiente.
Eppure quando si parla di salute in ambito ambientale e climatico, sessualità e riproduzione non vengono ancora considerate come una parte fondamentale dei diritti delle persone. A tutt’oggi la maggior parte dei disaster relief packages, le forniture personali distribuite nelle situazioni di emergenza, non prevedono assorbenti e anticoncezionali, senza menzionare la ricorrente mancanza di servizi ginecologici nelle situazioni emergenziali.
Garantire alle donne accesso all’educazione e alle coppie i mezzi per prevenire gravidanze non intenzionali significa migliorare lo stato socioeconomico di comunità intere, ridurre le tensioni sull’ambiente e migliorare la risposta alle sfide del cambiamento climatico. Questo può avvenire solo se nelle politiche e nei progetti in ambito di clima e sviluppo viene integrata una prospettiva di genere che tenga conto del ruolo delle donne e dei loro diritti, compresa la loro salute sessuale e riproduttiva.