Le accuse di Giancarlo Cancelleri confermate dai primi dati sulle preferenze: il figlio dell'ex deputato dem condannato a 11 anni di carcere in primo grado è tra i recordman di voti. E un peso specifico nel successo del centrodestra lo hanno avuto anche altri candidati al centro delle polemiche nei giorni scorsi: da Catania a Messina fino a Palermo e Trapani chi ha avuto problemi con la giustizia ha fatto il pieno nell'urna
“Non chiamerò il vincitore Musumeci, perché dovrei telefonare ai veri vincitori che sono i Genovese e i Cuffaro. Questa è una vittoria contaminata dagli impresentabili”. A spoglio ancora in corso, ma a sconfitta ormai acquisita, Giancarlo Cancelleri non ha usato giri di parole per individuare nei signori delle preferenze la chiave del successo del centrodestra alle regionali. L’ex candidato presidente M5s ha fatto i nomi e, soprattutto, i cognomi.
Luigi nel nome del padre Francantonio – Diciassettemila voti, quando alla fine dello spoglio mancava ancora qualche sezione. Tutte preferenze date a uno studente universitario che con i suoi 21 anni è probabilmente il più giovane deputato eletto all’Assemblea regionale siciliana. Solo che non si tratta di un enfant prodige della politica venuto allo scoperto all’improvviso. No, perché quel record di preferenze – annunciato da una nota stampa quando lo scrutinio non era neanche a metà – ha un nome è cognome pesante: si chiama Luigi Genovese ed è il figlio di Francantonio, l’ex deputato del Pd condannato a 11 anni di carcere in primo grado, che da qualche tempo ha fatto armi e bagagli per trasferirsi in Forza Italia. E che oggi consuma una doppia vendetta.
La doppia vendetta di Genovese – La prima risale a tre anni fa, ed è quella nei confronti del suo vecchio partito, che ne aveva autorizzato l’arresto alla Camera. La seconda è fresca ed è quella contro il suo attuale leader: quel Nello Musumeci che non l’ha mai visto di buon occhio in campagna elettorale. Ma che oggi diventa governatore anche e soprattutto grazie a lui. E siccome questa è una storia che va in scena in terra di Sicilia non può – ovviamente – mancare un messaggio erga omnes: nonostante l’arresto, la condanna, i guai giudiziari, Messina vota ancora per mister preferenza.
Il seggio in eredità – Solo che adesso quell’appellativo passa – seppur solo formalmente – di mano, così come di mano passa il seggio a Palazzo dei Normanni: il nuovo mister preferenza non è più Francantonio ma Luigi, primo figlio maschio in ordine gerarchico della casata. Al padre rimane la soddisfazione di recitare il ruolo di asso pigliatutto di un turno elettorale combattuto, l’uomo jolly che ha riesumato il partito di Silvio Berlusconi.
L’ago della bilancia – Sì, perché con un’affluenza ai minimi storici – 2 milioni e duecentomila elettori circa – quei cinque punti percentuali che hanno riportato il centrodestra al governo dell’isola, alla fine saranno pari a poche decine di migliaia di voti: cinquantamila, forse anche meno. Quando valgono di questi tempi le quasi ventimila preferenze dei Genovese? Tanto, tantissimo. Soprattutto perché sono voti praticamente feudali. L’uomo scelto da Walter Veltroni come primo segretario del Pd in Sicilia è stato condannato a undici anni in primo grado per associazione per delinquere, truffa, riciclaggio, frode fiscale, peculato? È finito agli arresti dopo che il Parlamento ha votato a favore dell’autorizzazione a procedere nei suoi confronti? Ha cambiato partito – dal Pd a Forza Italia – con la stessa facilità con cui si cambiano le camicie? Pazienza: Messina intende votarlo per sempre. E se non può votare lui, voterà suo figlio, suo nipote, un suo amico: chiunque Francantonio deciderà di far votare.
Il ritorno di Micciché – Una prova di forza non indifferente per l’ex sindaco di Messina. E infatti, quando ancora nelle scuole restavano da svuotare la metà degli scatoloni con le schede, ecco che dalla segreteria di famiglia partivano comunicati stampa per annunciare il clamoroso trionfo. Un messaggio indirizzato non solo ai vecchi amici del Pd (nella città sullo Stretto schiacciati fino all’11%), ma soprattutto al presidente eletto. A Messina Forza Italia ha toccato quota 23%, Musumeci il 48: un record. Dopo la sbornia per la vittoria, dunque, il nuovo governatore dovrà riaccendere il telefono e rispondere alle istanze che arriveranno dai Genovese. Ma anche a di Gianfranco Micciché. L’uomo del 61 a 0 è tornato ad essere il viceré di Berlusconi in Sicilia, rianimando la morente Forza Italia degli ultimi anni. A cominciare proprio dall’acquisto dell’ex segretario del Pd, passato a sorpresa con gli azzurri insieme a tutta la sua corte dei miracoli.
La rivincita degli impresentabili – È Micciché che ha voluto Genovese, ed è sempre Miccichè che ha voluto in lista una serie di candidati con una sfilza interminabile di pendenze giudiziarie. Sono i cosiddetti impresentabili, quelli che hanno dato qualche problema a Musumeci in campagna elettorale. “Ho appreso i loro nomi dai giornali”, diceva il neo governatore della Sicilia incalzato dagli sfidanti in diretta su Rai Tre. “Gli impresentabili non sono un problema: basta non votarli“, assicurava in più occasioni. E invece – per sua fortuna – i suoi elettori li hanno votati. Per avere i dati definitivi delle liste – e quindi capire a chi finiranno i vari seggi – è ancora presto, ma basta dare un’occhiata ai risultati nelle province per vedere che in effetti Musumeci deve più di qualcosa a una serie di candidati segnalati alla vigilia della campagna elettorale del fattoquotidiano.it.
La vittoria di Palermo – A Palermo, per esempio, la coalizione di centrodestra ha sfondato la soglia del 40%. Ed è proprio nel capoluogo che Micciché ha candidato Marianna Caronia, indagata nell’inchiesta sugli appalti del trasporto marittimo. La stessa che ha portato all’arresto dell’ex sindaco di Trapani, Mimmo Fazio, non ricandidato dopo i cinque anni trascorsi a Palazzo dei Normanni. Caronia probabilmente non sarà eletta ma è anche con i suoi voti che Musumeci ha sbancato in una provincia che non è la sua. Va verso l’elezione, invece, Riccardo Savona, eletto con la destra nel 2012, passato a sinistra per sostenere Rosario Crocetta e ora tornato all’ovile azzurro. Il motivo? Nell’ottobre del 2013, durante un evento pubblico, Crocetta lo vide seduto in prima fila e inaspettatamente disse pubblicamente: “Chi ha fatto affari con Nicastri, Matteo Messina Denaro e la mafia deve uscire immediatamente”. Il riferimento era per i rapporti pregressi tra lo stesso Savona e l’imprenditore dell’eolico, al quale sono stati confiscati beni pari a un miliardo e mezzo di euro.
Vincono pure gli ex alfaniani – A Trapani, invece, il partito di Berlusconi supera il 17% anche grazie ai voti portati in dote da Giovanni Lo Sciuto, consigliere regionale di Castelvetrano, uno dei seguaci di Angelino Alfano che hanno lasciato Alternativa Popolare per sostenere Musumeci. Lo Sciuto non ha indagini in corso ma è finito più volte tra le polemiche per i suoi vecchi rapporti di conoscenza con Matteo Messina Denaro. I due sono persino ritratti insieme in una fotografia scattata al matrimonio della cugina del superlatitante. “All’epoca dei fatti, la famiglia Messina Denaro non aveva, per quelle che erano le mie conoscenze di ragazzino, problemi con la giustizia e, non avendo io il dono della chiaroveggenza, non potevo prevedere quello che sarebbe successo dopo la fine degli anni 80”, si è giustificato Lo Sciuto. Che in passato ha fatto anche parte della commissione antimafia, presieduta dallo stesso Musumeci.
Il consigliere nostalgico dei boss- È in quella veste che il neo presidente aveva segnalato all’omonima commissione nazionale il nome di Riccardo Pellegrino, consigliere comunale di Catania e fratello di Gaetano, imputato per mafia. “È considerato punto di riferimento del clan dei Carcagnusi“, ha raccontato in campagna elettorale Claudio Fava, ricordando quando, nel 2014, il candidato forzista si presentò nella redazione catanese di livesicilia.it accompagnando Carmelo Mazzei, figlio del boss latitante Nuccio Mazzei. “Dall’intercettazione ambientale su quell’incontro, disposta dai magistrati – diceva Fava – si apprende che Riccardo Pellegrino è “orgoglioso” di vivere nel quartiere catanese di San Cristoforo, regno del clan Santapaola, ma si lamenta perché adesso ci sarebbe solo la piccola criminalità mentre se in campo ci fossero state persone di spessore, mafiosi, tutto questo manicomio non c’era”. Anche Pellegrino non dovrebbe riuscire ad entrare a Palazzo dei Normanni: i suoi circa 5mila voti, però, hanno contribuito al 41% di Musumeci.
Voti pure dagli arrestati – Così come le preferenze raccolte da Antonello Rizza, l’ex primo cittadino di Priolo arrestato in piena campagna elettorale nell’ambito di un’inchiesta su appalti pilotati al comune. Già titolare di 22 capi d’imputazione in quattro procedimenti, Rizza era dimesso da sindaco due giorni dopo l’arresto proprio per fare venire meno l’esigenza delle misure cautelari e per concentrarsi maggiormente sulla campagna elettorale: è rimasto probabilmente fuori dall’Ars, ma ha un credito con i vertici del suo partito.
Poi ci sono gli altri. Come i Popolari e Autonomisti – Idea Sicilia, cioè la fusione del partito dell’ex ministro Saverio Romano (processato e assolto per concorso esterno a Cosa nostra) e di Roberto Lagalla, che fu assessore alla sanità di Salvatore Cuffaro. A Palermo, dove la lista ha preso più dell’8%, correva Roberto Clemente, recentemente condannato in primo grado a sei mesi per corruzione elettorale. L’inchiesta della procura di Palermo aveva ricostruito, tra le altre cose, il livello raggiunto dalla compravendita di voti in Sicilia: per avere 150 preferenze bastava pagare 30 euro, in pratica ogni voto costava appena 5 euro.
Ha portato voti alla stessa lista di centro, ma candidandosi a Messina (dove è data al 6%) Roberto Corona, ex presidente di Confcommercio, già deputato regionale del Pdl, condannato in primo grado a tre anni dal tribunale di Roma: era finito coinvolto in uno scandalo su alcune facili fideiussioni dell’Ascom. Per lui i giudici capitolini hanno ordinato il sequestro di circa 700mila euro. Nello stesso collegio ha corso anche Santino Catalano, consigliere regionale “trombato” nel 2012: a causa di un patteggiamento a un anno e undici mesi per abuso edilizio aveva rischiato di decadere da deputato già nel giugno del 2011. Dichiarato ineleggibile dal tribunale civile era stato salvato dal voto segreto dei colleghi onorevoli, che a pericolo scampato lo avevano anche festeggiato a colpi di baci e abbracci tra gli scranni di palazzo d’Orleans.
La storia non cambia con il resto della coalizione. A Siracusa l’Udc è data al 7% anche grazie alla candidatura del notaio Giovan Battista Coltraro, ex sostenitore di Crocetta che a marzo è stato rinviato a giudizio per falso in atto pubblico. Secondo l’accusa nella sua veste di notaio avrebbe favorito l’acquisizione illecita di appezzamenti di terreno per un valore totale di tre milioni di euro. I neo scudocrociati di Lorenzo Cesa beneficiano anche dell’apporto di Giuseppe Sorbello, sotto processo per voto di scambio, mentre a Messina superano il 7% anche grazie a Cateno De Luca, ex vulcanico deputato regionale, per il quale la procura peloritana ha chiesto una condanna a 5 anni. Insomma, se la quintessenza del Gattopardismo di Sicilia è l’ormai abusato “cambiare tutto per non cambiare nulla”, si può dire che oggi la Sicilia è finita a una versione ridotta di don Fabrizio di Salina: non cambiare nulla. E basta.