Se avrà la luna storta, bofonchierà le sue cose da leggenda fino a renderle irriconoscibili, tanto per ribadire al pubblico: “Hey, questa è roba mia, l’ho composta io! La volete ascoltare? Eccola, ma non vi appartiene. La faccio come mi pare”
Sarà il solito terno al lotto. Deciderà lui se vestire i panni del cantastorie, del profeta, dell’illusionista. O del cialtrone. Come sempre. E se avrà la luna storta, bofonchierà le sue cose da leggenda fino a renderle irriconoscibili, tanto per ribadire al pubblico: “Hey, questa è roba mia, l’ho composta io! La volete ascoltare? Eccola, ma non vi appartiene. La faccio come mi pare”. Se invece avrà voglia di divertirsi, i sei concerti italiani di Bob Dylan del prossimo aprile (Il 3, 4 e 5 all’Auditorium Parco della Musica di Roma, il 7 al Mandela Forum di Firenze, l’8 al Palabam di Mantova e il 9 agli Arcimboldi di Milano, biglietti in vendita su Ticketone da questo venerdì) potrebbero rivelarsi significativi. Non memorabili, questo no: perché uno che ha deciso di imbarcarsi quasi trent’anni fa in un “Never Ending Tour” che lo sta traghettando dentro un’accidiosa senilità, difficilmente trova che una sera debba essere più generosa e ispirata delle altre.
Prendiamo il nuovo segmento americano cominciato a metà ottobre a Salt Lake City e che finirà il 16 novembre a Boston: le scalette – compresa quella dello show di ieri sera a Pittsburgh e prevedibilmente quella di domani al Nassau Coliseum di Uniondale – ricalcano uno schema fisso. Venti pezzi, apertura da lustrarsi gli occhi con un tris di classici ammazzasette come “Things Have Changed”, “It Ain’t Me Babe” e “Highway 61 Revisited” e chiusura con i bis blindati di “Blowin’ In The Wind” e “Ballad Of A Thin Man”. Ma nel corpo della serata, solo un paio di altre meraviglie come “Tangled Up In Blue” e “Desolation Row”. Per il resto, Dylan gioca sul palco a fare il crooner oltretombale con gli standard di Sinatra o di Tony Bennett, quel repertorio che in vecchiaia ha deciso di lustrare in album come “Triplicate” dopo averlo tirato fuori dalla cassapanca della Grande Soffitta Americana, le canzoni popolari del precoce Ventesimo Secolo, di quando lui era un ragazzo insonne e ascoltava la radio di notte: qualche volta le onde sibilanti di una stazione lontana gli portavano alle orecchie il senso di pericolo nella voce country di Hank Williams, altre il canto melodioso e ammaliante di Frank.
Una sera i due monumenti della musica d’Oltreoceano, Dylan e Sinatra, si ritrovarono l’uno di fronte all’altro nella sontuosa residenza dove “Ol’Blue Eyes” celebrava il proprio compleanno. Erano entrambi già ultrafamosi: indicando gli ospiti che festeggiavano nella casa, Frank puntò un dito verso le stelle e disse a Bob: “Noi due siamo diversi, abbiamo gli occhi celesti. Veniamo dal cielo”. Due alieni, due divinità pop. Ma – a differenza di Sinatra – il cantautore ha sempre vissuto con insofferenza il proprio ruolo di portavoce della generazione pacifista dei primi Sessanta. Ecco il giovane bardo, dissero nel periodo in cui era l’erede di Woody Guthrie, quel maestro che sulla chitarra aveva scritto “Questa macchina uccide i fascisti”. Dylan subito incapsulato dall’America nella gabbia dell’ortodossia folk, la sinistra pura e boscaiola che vedeva come il fumo agli occhi il “Sistema” corrotto cui appartenevano i giovani idoli pop e rock, i Beatles, gli Stones.
Bob che si era platealmente ribellato suonando in veste elettrica al Festival di Newport del ‘65, stabilendo una frattura definitiva con quel Movimento progressista che pendeva dalle sue labbra. E non è tornato indietro. Mai. Si è baloccato con i generi, camuffandosi da signorotto di campagna, da ebreo errante, da rocker eccentrico, da cristiano rinato (come dimostra il monumentale cofanetto “Trouble No More”, appena uscito, che raccoglie preziosi live del periodo ‘79-‘81, quello in cui Bob sosteneva di essere stato folgorato da Gesù che era entrato nella sua stanza).
Non puoi afferrarlo davvero, Dylan. Negli Usa orfani di JF Kennedy, ancora in pieno ‘63, affermò ricevendo un premio di comprendere le ragioni di Oswald, l’assassino del presidente. Si è sempre smarcato quando qualcuno voleva prenderlo, come in quei primi anni Settanta in cui il “dylanologo” Alan Jules Weberman andava a rovistargli nella spazzatura davanti casa per cercare le presunte prove della tossicodipendenza dell’artista, quella che a parere dello stalker era alla base del suo voler ripudiare l’investitura di menestrello della nazione.
Non lo prendi, Bob, non ci si riesce. Gli conferiscono il Nobel e lui dice che ha “altri impegni”, non può andare a Stoccolma ad inchinarsi davanti al Re Carlo Gustavo. E quando, mesi più tardi, manda il discorso registrato di accettazione dell’onorificenza, si scopre che le sue forbite citazioni sui maestri della letteratura come Melville sono prese pari pari da un bigino sul “Moby Dick”. Per solenne beffa, quella prolusione dylaniana, autentica o apocrifa che sia, è oggi pubblicata dalla prestigiosa casa editrice Simon & Schuster. Un libriccino da 17 dollari che in edizione deluxe (cento copie limitate) arriva a costare 2500 dollari. Che ci si può aspettare ancora da Bob Dylan? Una magia? Un raggiro? O niente? In qualche modo ci sorprenderà. Nel bene e nel male, non sa fare altro.