“Giulio, fai una prova: fatti immobilizzare e metti una benda che non ti faccia vedere nulla e resta così per una settimana. Così potrai sapere come sto io. Non resisteresti neppure un giorno”. Questo e altro ancora diceva Dj Fabo in un’intervista rilasciata a gennaio scorso a Giulio Golia, inviato del programma Le Iene. Oggi, davanti alla Corte d’Assise di Milano, inizia il processo a Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni ed esponente dei Radicali, imputato per aiuto al suicidio per aver accompagnato, a febbraio, proprio Dj Fabo in una clinica svizzera per il suicidio assistito. Per dimostrare le condizioni fisiche in cui si trovava Fabiano Antoniani e la lunga agonia a cui sarebbe andato incontro nel morire senza supporto medico-farmacologico, i pm Tiziana Siciliano e Sara Arduini hanno chiesto e ottenuto di far proiettare nelle prossime udienze il video choc di quell’intervista rilasciata dal 40enne. Tutto il ‘girato’ dell’intervista, mai mostrato prima, verrà proiettato in aula davanti ai giudici togati e popolari in una delle due udienze già fissate per il 4 e il 13 dicembre, in cui saranno anche sentiti tutti i testimoni. Oggi i Radicali hanno organizzato un presidio davanti al tribunale e lanciato una campagna web intorno all’hashtag #ConCappato, per quanti vorranno sostenere simbolicamente sui social o più concretamente con una donazione sul sito concappato.associazionelucacoscioni.it l’azione legale. “Questo processo – ha spiegato Cappato ai cronisti – sarà un’occasione pubblica per verificare per le persone che soffrono e per i malati terminali quali sono i diritti di scelta sull’interruzione delle sofferenze, ma anche per chi vuole vivere”.
In aula – Questa mattina il processo si è aperto con l’ammissione delle prove testimoniali e documentali davanti alla Corte d’Assise, ma il procedimento si preannuncia breve: potrebbe arrivare a sentenza già tra gennaio e febbraio, dopo le due udienze fissate, nel corso delle quali tra i testimoni verrà ascoltato anche il medico-anestesista Mario Riccio che seguì il caso Welby, la madre e la fidanzata di Antoniani (che oggi non erano in aula). La Corte, presieduta da Ilio Mannucci Pacini, ha ammesso tutti i testi e i documenti richiesti come prove da Procura e difesa. E poi ci sarà il video. “Chiediamo la visione in aula di questo documento di particolare rilevanza – ha spiegato il pm Tiziana Siciliano – non per volontaria scenograficità, ma perché la riteniamo opportuna assieme all’escussione come testimone del giornalista per spiegare le effettive condizioni prima, dopo e durante e per come si possono ricavare dalle immagini”.
La storia di Fabo – A gennaio 2017 dj Fabo aveva lanciato un appello al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che non gli ha mai risposto. “Da più 2 anni sono bloccato a letto immerso in una notte senza fine. Vorrei poter scegliere di morire, senza soffrire” furono le parole rivolte a Mattarella in un video-appello in cui il ragazzo chiedeva un intervento sulle scelte di fine vita in Italia, attraverso la voce della sua fidanzata Valeria, che gli è rimasta accanto per 25 anni, anche dopo che, a causa di un incidente stradale avvenuto nel 2014, per Fabo era iniziato l’inferno. Era tetraplegico e a nulla sono servite le terapie seguite per migliorare le sue condizioni. Negli ultimi anni il 40enne aveva anche perso la vista. Una vita impossibile per lui che amava i viaggi, lo sport, la musica e l’avventura.
Il ruolo di Cappato – Il giorno in cui Golia fece il servizio, Fabo già sapeva che cosa sarebbe accaduto, ma non poteva ancora dirlo. Con un tweet postato il 26 febbraio fu proprio Marco Cappato ad annunciare che aveva acconsentito ad accompagnarlo in Svizzera. L’esponente dei Radicali lo ha portato in auto fino alla clinica Dignitas di Forck, vicino a Zurigo, dove poi dj Fabo è stato raggiunto dai suoi cari. Sono trascorsi un paio di giorni, tra ricordi e paure, poi Fabiano è stato aiutato a morire. L’ultimo messaggio è stato: “Ricordatevi di allacciare le cinture di sicurezza”. Poi ha ringraziato chi l’aveva aiutato rischiando anche di finire in carcere. Al suo rientro in Italia, Cappato si è autodenunciato ai carabinieri e poi è stato iscritto nel registro degli indagati per il reato previsto dall’articolo 580 del codice penale, ossia ‘istigazione o aiuto al suicidio’. Un reato per cui rischia una pena dai 5 ai 12 anni di carcere. I pm di Milano Tiziana Siciliano e Sara Arduini hanno chiesto di archiviare il caso o di sollevare una questione di costituzionalità della norma sull’aiuto al suicidio, ma il gip Luigi Gargiulo ha respinto l’istanza e ordinato l’imputazione coatta e la successiva richiesta di rinvio a giudizio.
La battaglia – È stato proprio Marco Cappato, a settembre, a scegliere di essere giudicato con il rito immediato chiedendo di saltare l’udienza preliminare e passare direttamente al dibattimento “perché in Italia si possa discutere di come aiutare i malati a essere liberi fino alla fine”. Nel frattempo, però, la legge sul biotestamento è ancora oggi ferma in Senato. Dieci anni dopo Piergiorgio Welby. Per Filomena Gallo, avvocato e segretario dell’associazione Luca Coscioni, l’incapacità della politica ufficiale “il processo a Cappato rappresenta un altro momento fondamentale per tentare di affermare la prevalenza dei principi costituzionali sul codice penale risalente al periodo fascista”. E oggi ricorda: “L’articolo 32 della Costituzione stabilisce che ‘la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana’”.