Il suo film, vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2017, in sala il 9 novembre prossimo con Teodora, potrebbe distruggere l’autostima di qualunque pomposo direttore di museo d’arte contemporanea. Nonché critici, curatori, e compagnia cantante (e suonante) di un mondo economicamente sopravvalutato, come nemmeno i mutui subprime, e culturalmente insostenibile nella sua snobistica alterità
Fate spazio al regista svedese Ruben Ostlund. Il suo The Square, vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2017, in sala il 9 novembre prossimo con Teodora, potrebbe distruggere l’autostima di qualunque pomposo direttore di museo d’arte contemporanea. Nonché critici, curatori, e compagnia cantante (e suonante) di un mondo economicamente sopravvalutato, come nemmeno i mutui subprime, e culturalmente insostenibile nella sua snobistica alterità. Eppure da decenni l’arte contemporanea vuole ostinatamente parlare con la voce semplice dei gesti e della quotidianità. Si intestardisce tra installazioni e performance live a dare significati a ciò che di più comune la circonda. Finendo per suonare fasulla nell’anima e farlocca nei contenuti, proprio come una delle “opere” esposte nel film di Ostlund, fatta di mucchietti di ghiaia, creata da un certo Gijoni che inavvertitamente un uomo delle pulizie ha reso monca di un mucchietto asportato con l’aspirapolvere.
Niente paura. Christian, rampante ed elegante direttore del museo X Royal, protagonista di The Square, raggiunto sulle scale mentre cerca di togliersi di dosso la fanciulla che lo incalza e con cui è stato distrattamente a letto la notte prima, suggerisce in un secondo alla sua vice la soluzione del danno: tirar fuori la ghiaia aspirata e ricomporre il mucchietto. Questo lo facevo anch’io, hanno affermato a mezza bocca orde di maligni di fronte ad un Cattelan o un Hirst. In The Square, quindi, ecco confermati gli impeti fantozziani di fronte alla “Kotiomkin”. Un mucchietto di ghiaia in mezzo a una sala si può ricomporre e non muore nessuno. Ostlund non poteva che ambientare, e far scattare la scintilla narrativa di un clamoroso cortocircuito etico, in questo assurdo mondo dell’effimero, tra i corridoi, i vernissage e le conferenze stampa di questa contraffazione perenne del senso creativo.
Il racconto di The Square però subito si dilata e si scompone nei rivoli grotteschi di una querelle socio-economica, di uno scontro di classe sofisticato, che avrebbe raccolto il plauso di Buñuel. Lo stilosissimo upper class Christian (Claes Bang), camicia bianca dal collo slacciato su completo morbido, sciarpina di cotone avvolta in modo finto distratto, è il figuro perfetto per spiegare ad un giornalista, e alle masse lettrici, il (non) significato della “mostra/ non mostra”, del “sito/non sito”, ma anche l’idea “the square”, ovvero un quadrato ricavato in mezzo a dei sanpietrini ed esposto all’ X Royal, “santuario di fiducia e altruismo al suo interno dove tutti hanno gli stessi diritti e doveri”. L’importante è darsi un tono, mostrare quell’allure illuminata, essere buoni e bravi borghesi progressisti portatori di un’esemplarità da copertina. Perché poi capita di finire derubati dello smartphone (anche qui sembra di assistere ad una finzione nella finzione) e andare nel pallone. Altro che “quadro di fiducia e altruismo”. Christian e un suo tirapiedi hypster compongono divertiti come bimbi, mentre bevono un pregiato rosso, una lettera minatoria con richiesta di riscatto del telefonino, ricattando un intero condominio di periferia, proprio da dove arriva il segnale GPS dell’oggetto rubato. Solo che Ostlund mescola subito le carte in questa reazione a catena paradossale e cinica: tra l’alto del lavoro e del mondo elitario museale, e il basso disperato addirittura di un bimbo immigrato. Il privato si aggroviglia così con l’immagine pubblica, la vita entra realmente dentro l’arte, fino a creare un caos inenarrabile che farà deragliare attività museale e quotidianità del singolo.
The Square non esibisce mai una trama lineare, bensì un percorso sincopato ed affascinante, una partitura dove non si comprende più quale dimensione del discorso faccia da contrappunto all’altra, se sia l’arguzia del paradosso comico a prevalere o la drammaticità di un sottotesto socio-antropologico, se sia più importante la clamorosa sequenza della cena con performance scimmiesca e violenta tra i tavoli reali o la ricerca a mani nude di un oggetto tra i rifiuti zozzi bagnati dalla pioggia. C’è poi una scelta di punteggiatura nel testo di Ostlund, già iperpresente nel suo precedente inatteso ed imperdibile Forza Maggiore, che ne qualifica riconoscibilità e firma. Qualcosa di insinuante e sottile che lascia basiti per frequenza ed efficacia. Tra le pieghe di un racconto che fa dell’inatteso (il gesto artistico, il furto, il ritrovamento, la provocazione) un dato ricorrente, ecco aggiungersi la sospensione di senso e di reazione, sia da parte degli attori in campo che degli spettatori, di fronte a tutti quegli attimi di disturbo di fondo, a piccoli colpi di scena che incrinano la linea retta della percezione. Prendete quel tizio affetto da sindrome di Tourette che interrompe ad intermittenza la già formale conferenza stampa di un grande artista internazionale a suon di involontarie bestemmie e offese; il fastidioso bordone sonoro di un installazione che in loop fa sentire lo scricchiolio sempre più invadente di un mucchio di materiale che si frantuma mentre assistiamo al dialogo sottovoce tra i due protagonisti che parlano di una nottata di sesso non intesa allo stesso modo; il battere le mani che spezza diverse sequenze, o l’urlo del cuoco che interrompe l’orda di invitati al buffet del museo; un “help” lanciato da un bambino in un paio di momenti topici del privato di Christian che percepiamo con l’orecchio ma la cui fonte fisica è nascosta e invisibile all’occhio.
E proprio quando si pensa che la storia finirà, che il cerchio si chiuderà, sconfitti o vincenti, spiazzati o “inquadrati”, ecco che The Square ricomincia. Christian si dimette dal suo incarico davanti alle tv per un video pubblicitario del museo davvero sui generis ma lo spettatore deve decidere se parteggiare per il concetto di rispetto delle minoranze o per quello di libertà di parola. Un po’ come in Forza Maggiore, i film di Ostlund non sembrano mai avere la parola fine. Rimangono sospesi, interrogativi, sghembi. E lasciano almeno un paio di sequenze memorabili, risultato di una regia meticolosa che preferisce quadri fissi, frontali, e pochi movimenti della macchina da presa che al massimo carrella lateralmente ma che non scavalca mai di campo. Il ballo notturno con techno a manetta dentro al palazzo reale che vale, in stile e simbolismi, dodici balconi romani de La Grande bellezza. O il cinico video pubblicitario del museo per pubblicizzare l’opera “The square”, contenuto che non sveliamo ma sorta di apice a cui l’arte contemporanea anela come vuoto sussulto provocatorio, in cui Ostlund infila abilmente il morente cinematografo novecentesco. Chissà magari un giorno vedremo proiettato 24/7 The Square proprio tra le stanze di un museo d’arte contemporanea. Nel cast c’è anche l’Elisabeth Moss di Mad Men e The handmaid’s tale. Mentre per chi volesse recuperare tutti i lungometraggi di Ostlund, fino al 12 novembre la Cineteca di Bologna ne proporrà una retrospettiva completa.