Ultime battute della deposizione al processo Aemilia di Antonio Valerio, il collaboratore di giustizia che ha ripercorso trent’anni di storia della penetrazione della ‘ndrangheta cutrese in Emilia Romagna. Dopo accusa e difese è ora il presidente del collegio Francesco Maria Caruso a testare la sua credibilità, ma nelle due udienze del 7 e 9 novembre del primo maxi processo di ‘ndrangheta a Reggio Emilia hanno tenuto banco anche le dichiarazioni spontanee di alcuni imputati eccellenti, accusati di appartenere ai vertici della cosca. Hanno parlato in cinque con toni e accenti diversi ma sostenendo tutti la stessa tesi di fondo: c’è un grande complotto contro di noi. Il primo è Antonio Floro Vito in collegamento da Parma. La rabbia delle sue parole è rivolta in parti uguali al pentito che lo chiama in causa e alle accuse che lo costringono in carcere: “Non ho mai avuto niente a che fare con Valerio, l’ho sentito al massimo qualche volta al telefono. Io ho sempre lavorato, i miei figli sono cresciuti con il pane del mio sudore. E’ vero” aggiunge “sono il genero di Lamanna (riconosciuto come uno dei capi cosca e condannato a 12 anni nel rito abbreviato). Ma io ho sposato la figlia Carolina, non suo padre Francesco”.
Dopo di lui tocca a Michele Bolognino, unico imputato col grado di capo ‘ndrangheta ad avere scelto il rito ordinario. E’ uomo robusto e focoso, nipote del potente boss di Papanice Mico Megna. Segue tutte le udienze da un anno e mezzo in videoconferenza e quando il presidente Caruso gli dà la linea inforca gli occhiali e legge una breve memoria che si è scritto in carcere: “Leggo perché non parlo bene l’italiano. Ho cercato di cambiare vita, di ripartire, di essere un esempio per i miei figli” dice riferendosi al 2003 quando uscì dalla precedente galera dopo undici lunghi anni. Lo sostenne anche nel gennaio scorso, quando testimoniò con grande calore al processo parlando un linguaggio comprensibilissimo. I pubblici ministeri Mescolini e Ronchi gli contestarono in quella occasione una quindicina di viaggi a Cutro effettuati dopo il 2004 per incontrare il boss Nicolino Grande Aracri nella sua tavernetta in contrada Scarazze. L’avvocato difensore Carmen Pisanello corse in suo aiuto chiedendogli: “Lei si rivolgeva a Grande Aracri come mafioso o come uomo?”. Risposta: “Se era mafioso o non era mafioso, sono fatti suoi!”. Bolognino, contrariamente a Floro Vito, accredita e sfrutta la testimonianza di Valerio che non colloca il suo nome ai vertici della cosca: “Se io sono stato un capo della ‘ndrangheta dal 2004 al 2012, come avrebbe potuto Valerio non saperlo? E come avrebbe potuto pretendere da me, un suo capo, 50mila euro per chiudere un debito di mio fratello Sergio al quale aveva prestato soldi a tassi usurai?”. La conclusione della sua memoria è semplice e suggestiva: “Io ho chiuso quindici anni fa con la ‘ndrangheta. Ho capito che non esistono scorciatoie nella vita. Che le fortune e i soldi facili del crimine sono castelli di sabbia che alla prima mareggiata vengono spazzati via”.
Il terzo a parlare, martedì 7 novembre al termine della udienza, è Gian Luigi Sarcone, uomo di punta del clan e fratello di Nicolino, il capo dei capi a Reggio Emilia secondo Valerio. E’ lui ad informare l’aula che Nicolino aveva deciso di collaborare con la giustizia ma a stretto giro di posta, sempre martedì, è arrivata la risposta della Direzione Distrettuale antimafia di Bologna: Nicolino Sarcone non è credibile come pentito. Forse è per questo che Gian Luigi spende solo poche amare parole, attaccando i pubblici ministeri accusati di orientare il pentito Valerio con domande suggestive: “La verità è difficile da capire, ma questi costruiscono le verità. C’è una macchina dietro di loro, una macchina troppo grande”. Di fronte alla quale, lascia intendere, noi soccombiamo. Giovedì 9 tocca a Giuseppe Vertinelli, imprenditore facoltoso della pedecollina emiliana, e a Gaetano Blasco, ex braccio destro di Antonio Valerio. Anch’essi in carcere dalla notte del 28 gennaio 2015, quando 117 arresti resero evidente ad una intera regione che qualcosa non aveva funzionato nella prevenzione sulle infiltrazioni mafiose. Blasco guarda oggi il collaboratore di giustizia Valerio e vede presumibilmente il più odiato dei nemici: “Lui infanga il mio nome signor Presidente. Lui dice su di me tutte le malvagità possibili, raccontando fatti privati della mia vita che nulla hanno a che fare con questo processo. Mi confonde con Salvatore Blasco quando dice che Nicolino Grande Aracri era mio amico e inventa gruppi e sottogruppi ai quali io non ho mai partecipato. E allora io le chiedo di potermi difendere. Interrogatemi, risponderò a tutte le domande”. Il presidente ringrazia: ci penserà. Giuseppe Vertinelli, assieme al fratello Palmo, si era introdotto nell’economia emiliana già negli anni Ottanta, costruendo un invidiabile patrimonio di società, immobili, residenze di lusso, finiti sotto sequestro per un valore che supera i 40 milioni di euro. Eppure presentava dichiarazioni dei redditi da indigente e, secondo l’accusa, risparmiava sui costi del lavoro praticando un caporalato spinto agli estremi. Il suo contrattacco alle accuse di Antonio Valerio si limita ad un dato: “Lui spacciava droga e nel farlo aveva coinvolto mio nipote Domenico Brugnano, che era anche suo cugino. Io non volevo ma Valerio ha rovinato il ragazzo”.
Tra questi accenni di difesa e le arringhe finali che si ascolteranno non prima del gennaio 2018, in aula arriverà il terzo collaboratore di giustizia che ha saltato la staccionata a dibattimento in corso. E’ Salvatore Muto, membro della più numerosa famiglia coinvolta, con ben otto imputati tra rito ordinario di Reggio Emilia e rito abbreviato a Bologna. La ‘ndrangheta emiliana, già azzoppata dalle attività investigative e dal processo, continua a perdere pezzi. Ma fuori dall’aula bunker di Reggio Emilia, nella vita di tutti i giorni, “è ancora viva e vegeta”, almeno secondo Antonio Valerio.