Due secoli abbondanti dopo Jenner, i sistemi di vaccinazioni contro ogni male endemico ed epidemico si sono ormai imposti come gli unici che diano garanzie. Perché non seguire, allora, e assecondare la scienza nella sua lezione di metodo? Bisogna prevenire il virus del fast con tutti i suoi effetti collaterali. Perciò contro la vita dinamica propugniamo la vita comoda. Contro coloro, e sono i più, che confondono l’efficienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast-food vengono evitati e sostituiti dagli slow-food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola.

Qualche giorno fa, sono stati giusto trent’anni che un gruppetto di belle menti e, con ogni evidenza, di ancor migliori papille, oggi rappresentate da Carlin Petrini, hanno consegnato alla storia contemporanea del gusto di questo Paese queste parole. Concetti destinati a dar vita a quello che è stato uno dei movimenti di pensiero e di azione (non solo a tavola) che più hanno inciso nel rapporto con il cibo di tante persone: sia in bocca che nell’immaginario.

Si sta ovviamente parlando di Slow Food, più precisamente del Manifesto dello Slow Food, pubblicato sul Gambero Rosso, all’epoca supplemento del Manifesto (a volte, le avanguardie servono davvero a qualcosa): “una proposta rivolta a tutti coloro che vogliono vivere meglio”.

Lo “slow food”, in questi tre decenni, è diventato sinonimo di cibo consapevole, di alimentazione sana, di mangiare conviviale; e Slow Food è assurto al rango, al contempo, di marchio di qualità di alimenti e di rivendicazione di diritto al cibo, di produzioni ecosostenibili e di riscoperta di perle sotterrate dalla (in)civiltà del fast food, di coltivazioni amiche della terra e di culto del buon vivere.

Non si intende intonare alcun peana d’occasione: nella cultura e nella storia di Slow Food non mancano aspetti discutibili e contraddittori. Da una parte quella che, in alcune occasioni, pare una sorta di mitizzazione della “tradizione”, con tutte le oscurità e le ambiguità che questa categoria si porta appresso – anche se, a quanto pare, da qualche tempo riesce a nasconderle assai bene (specie “a sinistra”); dall’altra, all’opposto, alcuni eventi, a vari livelli, che per forma e per contenuto (a partire da taluni tipi di frequentatori) non paiono proprio espressione di culture e, soprattutto, di pratiche del mondo contadino, per non dire di contatto con la terra.

Ma l’idea fondativa, e le “condotte” che ne sono scaturite, del cibo come collante tra sostenibilità ed etica, come momento di giustizia e di piacere, come elemento “di lotta e di godimento” crea un bilancio di trent’anni di vita di Slow Food indubitabilmente in attivo.

Obiettivi che, peraltro, risultano tanto più ardui, dunque meritevoli, quanto più quella parte politico – culturale che in essi avrebbe dovuto “naturalmente” riconoscersi e sostenerli – “la sinistra”, per usare un sostantivo astratto (e senza che con questo voglia intendersi che Slow Food è un’associazione “di sinistra”) – è passata in pochissimo tempo, in larghi settori dei suoi appartenenti (almeno di quelli che potevano permetterselo), da un estremo all’altro.

Il suo punto di partenza è, infatti, quello che denuncia Petrini in un libro a quattro mani con Luis Sepulveda – “abbiamo avuto una sinistra stoica, spartana, che non si è posta il problema del piacere, inteso come dignità per tutti. Una sinistra che ha ragionato in modo non così diverso rispetto al messaggio religioso, che ti promette il Paradiso dopo la morte perché il nostro mondo è un mondo di sofferenza. Il messaggio di questa sinistra è quasi lo stesso: si deve soffrire oggi e dopo la rivoluzione potremo conquistare la felicità” (Un’idea di felicità).

Ma il punto d’arrivo, con altrettanta plausibilità, è quello che scolpisce Pablo Echaurren in un altro mirabile libro – dialogo con Gino Veronelli: “C’è una gauche chic che desidera stare a tavola ingessata e servita di tutto punto con i calici piangenti, gli argenti seducenti, i maitre saccenti…” (Le parole della terra).

Insomma, una sinistra che, in molte sue espressioni, è passata, a tavola ma non solo, dal cilicio al frustino da bondage.

Senza mai soffermarsi su quell’austero edonismo, su quel consapevole “goduto piacere”, citato nel Manifesto, che, dal convivio, possono ispirare un più complessivo stile di vita, per non dire un’organizzazione sociale. Fino a lasciar immaginare e stimolare a impegnarsi per un altro mondo che non sia solo possibile, come si diceva qualche tempo fa: ma anche più giusto e piacevole.

Anche per questo, è il caso di fare gli auguri a Slow Food: cento di questi anniversari!

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