Si sono radunati in via Forni, davanti alla palestra di Roberto Spada. Per dimostrare che non hanno paura. Per far sì che i riflettori non si spengano sul pestaggio subito dalla troupe di Nemo. Per rivendicare “la libertà di lavorare senza subire violenze”. Circa 60 cronisti di varie testate tra giornali, tv e siti web si sono ritrovati questa mattina a Ostia, nel luogo in cui l’esponente del clan ha rotto con una testata il naso di Daniele Piervincenzi e picchiato con un manganello l’operatore Edoardo Anselmi. “E’ importante ristabilire il concetto che anche qui a Ostia un giornalista può fare domande e non c’è nessuno che può impedirgli di fare il suo lavoro – il commento di Marco Lillo, tra le firme di punta del Fatto Quotidiano – bisogna ribadire il concetto che in Italia non devono esistere dei luoghi nei quali la verità non possa essere cercata”.

“#giornalisti #NoBavaglio #tuttiadostia – sono gli hashtag con cui l’iniziativa è stata lanciata sui social network – l’aggressione di Roberto Spada alla troupe di Nemo è inaccettabile per qualunque Paese civile. Per affermare la nostra libertà di lavorare senza essere aggrediti, e per sottolineare che non si può accettare una tale brutale arroganza, abbiamo deciso di andare tutti insieme ad Ostia: gli inviati di tutti i programmi televisivi, e quelli di radio e giornali. Saremo ‘armati’ solo di telecamere, microfoni e taccuini per intervistare gli Spada e per chiedere agli abitanti del quartiere la loro opinione su questo atto di violenza pura“.

Ma gli abitanti del quartiere di voglia di parlare ne hanno ben poca. “Ora siete qui perché hanno rotto il naso a uno di voi – racconta qualcuno – ma voi giornalisti non vi abbiamo visti prima e non vi vedremo dopo, quando il polverone si sarà sgonfiato. Questo è un territorio che lo Stato ha abbandonato da anni”. “Casapound? Prima si facevano vedere da queste parti, ma ora dopo tutto questo casino sono spariti anche loro”, racconta una signora parlando della formazione neo-fascista che ha conquistato il 9% dei voti alle elezioni per il municipio del 5 novembre.

“Qui si vive da morti di fame – le fa eco un altro residente – io vado a cantare in giro per ristoranti per tirare su la famiglia. State malfamando tutta la zona co’ ‘sta storia. La mafia non sta a Ostia, sta in Sicilia dove chi sbaglia lo ammazzano sparandogli in testa”. “Secondo me Roberto ha fatto bene – aggiunge la donna accanto a lui – è arrivato al culmine, dopo cinque anni in cui viene tartassato, massacrato da tutta ‘sta politica. Non tollero la violenza, però penso proprio che lui sia arrivato al culmine, che non ce l’abbia fatta più. Roberto è sempre stato una persona tranquilla“.

Un atto per il quale “Robertino” Spada è stato fermato giovedì pomeriggio su su disposizione dei pm di Roma Giovanni Musarò e Ilaria Calò con l’accusa di lesioni aggravate e violenza privata con l’aggravante di aver agito in un contesto mafioso, in base all’articolo 7 della legge 203/91. Nel provvedimento i magistrati sottolineano “l’aggravante del metodo mafioso consistito nell’ostentare in maniera evidente e provocatoria una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione propria delle organizzazioni mafiose”. Spada si trova nel carcere romano di Regina Coeli, in attesa dell’interrogatorio di garanzia davanti al gip, atteso sabato mattina e durante il quale i pubblici ministeri chiederanno la convalida del fermo.

Proseguono, intanto, le indagini dei carabinieri del nucleo investigativo di Ostia per accertare chi fosse la seconda persona presente al momento dell’aggressione della troupe di Nemo e chiarire eventuali responsabilità. In particolare i carabinieri starebbero cercando di risalire a una persona che, secondo quanto raccontato dalle vittime, avrebbe rivolto loro delle minacce.

“Invitiamo tutti i colleghi ad aderire, dandogli appuntamento domani alle 11.00 in via Forni, proprio vicino la palestra di Roberto Spada – l’appello lanciato nella serata di giovedì – sperando di essere quanti più possibile, per affermare forte la nostra libertà di lavorare, raccontare la verità, fare domande e non dover subire violenze per l’unica colpa di fare il nostro lavoro”.

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