La telefonata arriva di mattina: la collega giornalista impegnata nella sua regione contro la violenza di genere, conosciuta durante una formazione, mi espone le sue difficoltà nell’uso sessuato della lingua italiana. Il nodo è sempre quello: sentire come un inciampo faticoso l’uso del femminile dove prima non c’era. “Sindaca, avvocata, magistrata: suonano male, mi sembra di fare una forzatura dell’italiano” mi dice, autenticamente sconsolata. A poco vale far notare che la lingua è un campo in continua evoluzione, che in latino advocata c’è, che l’Accademia della Crusca ha convalidato il linguaggio sessuato, perché solo nominandosi si esiste intere, non solo grammaticalmente ma soprattutto socialmente: la resistenza a designarsi come donne affonda e si sostanzia nelle radici ancestrali dell’inferiorità femminile rispetto al ‘neutro’ maschile, il genere (ancora) più nobile al quale bisogna aspirare e uniformarsi per eccellere.
Il fatto notevole è che quando discuto in incontri pubblici, così come in seminari di formazione, dell’importanza dell’uso del linguaggio sessuato trovo resistenze in ogni settore: dalla scuola al mondo del giornalismo passando per quello politico, sociale e professionale, mondi quindi spesso limitrofi o deputati all’educazione e alla comunicazione. A parte il benaltrismo diffuso a tutto campo sia tra le donne che tra gli uomini quando si toccano questioni sul genere linguistico (c’è ben altro a cui pensare, focalizzarsi sull’importanza di dire sindaca è una perdita di tempo) ciò che mi colpisce è la resistenza di molte donne (anche in ambienti a sinistra) verso la declinazione femminile della lingua: al centro della negazione dell’importanza di nominarsi come donne dentro una professione, un ruolo sociale o politico c’è sempre la sottovalutazione di quanto essere visibili e definirsi quindi come donne sia una questione di potere. Altrimenti come sarebbe che il complimento verso una donna valida è: ha le palle?
Sia negli incontri sulle pari opportunità o sull’analisi delle cause della violenza maschile così come nelle scuole non è difficile sentire uomini e donne neutralizzare il discorso, a partire da quel ‘buongiorno a tutti’ che palesemente contraddice la realtà dinnanzi a chi sta salutando, nonostante appaia stridente nel contesto del discorso. Buongiorno a tutte e a tutti suona ancora come una rarità, così come si fa fatica dire assessora, ministra, magistrata. Per le donne, quindi, esiste un fortissimo problema a rendersi visibili nominandosi come donne nello spazio pubblico per quello che si fa, soprattutto nelle professioni e negli ambito sociali dove prima erano solo gli uomini a esistere: l’autorevolezza, che il nominare rende incarnata, fa ancora paura. E per gli uomini come vanno le cose? Sono ormai 5 anni che giro l’Italia con il laboratorio di teatro sociale per uomini Manutenzioni-Uomini a nudo, tratto dal libro Uomini che odiano amano le donne: una straordinaria avventura che non si è ancora interrotta.
Tre spettacoli ci saranno in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, a Sanremo il 18, il 22 a Montecchio, il 25 a Suzzara, e per me è stata anche un’opportunità unica per capire come, lentamente, una formazione non tradizionale possa contribuire al cambiamento della mentalità individuale e collettiva. Quello che ho trovato più interessante in questo viaggio quinquennale ininterrotto da Trento a Soverato è stato verificare quali siano le criticità che bloccano il percorso di evoluzione per allontanarsi dagli stereotipi introiettati.
Gli uomini coinvolti nella piece teatrale, (ormai oltre 300 e l’età anagrafica non è un discrimine), faticano a stare dentro alla dimensione intima che il copione di Manutenzioni-Uomini a nudo propone: nei 35 laboratori realizzati in altrettanti città la difficoltà maggiore è quasi sempre quella di doversi misurare con le parole e i sentimenti dei propri simili sul corpo e sulla sessualità. Mentre risulta facile per gli uomini, in genere, parlare di sesso, nello spazio pubblico reale o virtuale, quando si tratta di leggere frasi intime del vissuto maschile, fuori dal fraseggio in stile caserma o spogliatoio l’imbarazzo diventa enorme.
Non va meglio, e questa non è una bella notizia, tra i giovanissimi: l’avere appreso informazioni, essere stati ‘educati’ sulla sessualità in massima parte dalla pornografia (violenta per lo più) facilmente rintracciabile in internet rende possibile il distacco tra emozioni e corpo, mettendo ai margini la relazione intima tra sé e l’altra. Si può così senza problema, per intenderci, usare linguaggio da hater sessista nei confronti dell’altro genere nella comunicazione quotidiana, ma quando si tratta di leggere frasi scritte da uomini, quali “Per un maschio medio italiano la sessualità è penetrazione: un cazzo duro da infilare da qualche parte”, oppure “Quando un maschio nuovo entra in una ‘banda’ in pochi istanti tutti capiscono come deve riconfigurarsi naturalmente la costellazione di potere. E l’aggressività la si vede in ogni cosa maschio-diretta: ‘team di marketing’ (penetrare il mercato, fargli ingoiare un accordo, spaccare il culo alla concorrenza, la killer app). Siamo un po’ tutti dei marines: break things, kill people” ecco che la cruda verità delle affermazioni che rivelano un comune sentire senza essere ‘battute da bar’ costituisce un ostacolo.
Nello stesso tempo confrontarsi sulle difficoltà e sulle emozioni che le parole suscitano è una opportunità straordinaria per crescere insieme e rimettere al centro del discorso pubblico la sessualità, il corpo, la relazione al di fuori della finzione dei ruoli precostituiti dagli stereotipi. Mi pare di poter affermare che l’analfabetismo dei sentimenti e il timore di perdere il consenso del patriarcato per gli uomini, e la sfiducia nell’autorevolezza incarnata nel proprio genere per le donne sono due facce della stessa medaglia: il lavoro con e sulle parole per dirsi e per dire del corpo, della sessualità e delle emozioni è ancora molto importante.