La lingua ribolle, i media la riscaldano sempre più, le carte in tavola (i fogli dei brogliacci, le lingue e i codici dei sistemi) si mescolano e rimescolano continuamente. E così, volenti o nolenti, si torna a parlare di poesia di ricerca. Già, ma cos’è la poesia di ricerca? C’è chi ritiene che si riferisca – necessariamente – a coloro che proseguono, con maggiore o minore autonomia e originalità, lungo il sentiero tracciato da avanguardie e neo-avanguardie, come Paolo Giovannetti.
Altri, come Guido Mazzoni, la pensano in modo opposto: dopo aver proposto una divisione tra “lirica” e “post-poesia” (tutto quanto lirica non è, e che, a star all’etichetta, non è neanche poesia, un po’ crocianamente), egli sostiene che la “poesia di ricerca” sia ogni operazione che “reinventa” un determinato stile, comprendendo così anche autori come Carlo Bordini, o addirittura Mario Benedetti.
A mio modesto avviso, forse è possibile immaginare anche qualcosa di diverso. E cioè che sia “poesia di ricerca” tutta quella poesia che va oltre la poesia, che cerca altrove, fuori dai suoi confini linguistici, letterari e di genere, che si contamina con altre arti, ma anche con altri saperi, con altri generi (la scienza, come la musica, la bio-neurologia, come la video-arte, ecc.), una definizione che potrebbe efficacemente definire operazioni come quelle di Emilio Villa, Edoardo Cacciatore, Francesco Leonetti, Luigi Di Ruscio, Giuliano Mesa, Corrado Costa, o Andrea Zanzotto.
Sono esempio di “ricerca“, nel senso qui proposto, due opere pubblicate recentemente: il “romanzo” di uno dei padri delle sperimentazioni artistiche e letterarie degli anni 60 e 70, Obsoleto, di Vincenzo Agnetti, e l’opera (multimediale, ma anche multi-topica) di uno dei più interessanti tra i nuovi autori contemporanei, Per Os, di Fabio Orecchini.
Obsoleto (Dia-foria ed.) è la riedizione di un testo pubblicato nel 1968, ad apertura di una collana di Scheiwiller programmaticamente intitolata Denarratori, riproposto da una coraggiosa operazione a cura di Giuseppe Calandriello e Daniele Poletti e con una lucidissima postfazione di Cecilia Bello Minciacchi.
Per quanto l’autore lo definisca un “romanzo”, lo scopo di Obsoleto pare essere proprio quello di terremotare il genere, di attraversarlo tutto per riconoscerlo nelle e alle sue “soglie” (“tutto è spiegato nel frontespizio”, non smette di ricordarci Agnetti), ma è certamente un’opera letteraria, non un libro-oggetto come il successivo Dimenticato a memoria, composto da pagine svuotate di cui restano solo i margini.
Unità ritmico-sintattiche che creano una sorta di brusio, di melopea singhiozzante, spezzoni di diegesi che non si fanno mai trama, ma che avvengono, scintillano e scompaiono, come meteore, una paratassi continua, indotta dall’uso reiterato, come unico diacritico, del punto che spezzetta la frase in unità autonome, che forse non sono versi, ma che a un verso poetico assomigliano molto, continui slittamenti semantici, un andamento metonimico che frantuma ulteriormente i pochi detriti di trama che aggallano tra onde alfabetiche soverchianti, innesti di poesia concreta, schegge iconiche, lampi di ironia letteralmente impertinente: questo è Obsoleto. Ma se è letteratura (quanto l’altrettanto geniale, coevo, Neurosentimental di Stelio Maria Martini) questo dispositivo celibe è poi sempre pronto a trasformarsi in altro: in un elemento installativo, o in uno spartito.
Per Os (Sigismundus ed.) è invece l’ultima produzione di Fabio Orecchini, già autore di un bel libro/Cd, Dismissioni (Sossella ed.), realizzato con il gruppo di musicisti romani Pane.
Per Os è un’operazione diversa, ma altrettanto riuscita.
Costruito a partire da un’occasione “civile” – il terremoto dell’Aquila – Per Os è anche un grande, spericolato esperimento formale, fatto di un libro, di una serie di eventi-installazioni (il progetto Terrae Motus) e di un sito web che ne perpetua l’esistenza.
Nel testo, ogni evento linguistico (e dunque fonetico, per os) è un evento sismico, apre faglie, fratture, inghiotte la lingua, l’onda (sismica) mescola i registri, fa cortocircuitare le metriche, ristruttura i significati a partire da una catastrofe avvenuta nel profondo, un ipocentro si direbbe in sismologia, che si trasforma in una catena d’eventi (linguistici e poetici). È evidente l’influsso, il magistero, che su tutto ciò ha un grande poeta, Giuliano Mesa, il Mesa di quel Tiresia che era anche performance vocale e musicale.
Il linguaggio diventa dunque una sorta di cicatrice, residuo di un attraversamento, sismografia di un evento, spettrografia di ciò che manca alla memoria: “immaginare (…) l’atto poetico come il risultato di una partitura spaziale, un paesaggio di segni, il luogo come fosse un testo, una relazione di forze, la voce come corpo, un corpo attraversato che attraversa, la parola una ferita infetta, che rimargina e riapre dal bianco e continuamente tracciare infinite cicatrici” come dice Orecchini stesso.
Io andrò oltre s’intitolava un’opera di Agnetti. Varrebbe come sottotitolo anche per Orecchini, in ragione di una natura comune: quella che Gilles Deleuze avrebbe chiamato “la natura fondamentalmente eterotopica della poesia”, la sua capacità, cioè, di deterritorializzarsi, di uscire dal proprio terreno, attraversandolo per arrivare altrove e riconoscersi – solo allora – per quello che è. Una ricerca.