La ricerca di nuove identità di esseri umani sradicati dal proprio paese e dalla propria cultura è un tema già affrontato da Viet Thanh Nguyen nel bellissimo romanzo Il simpatizzante (Premio Pulitzer 2016), una delle migliori opere di narrativa che mi sia capitato di leggere negli ultimi anni, e nella raccolta di racconti I rifugiati (traduzione di Luca Briasco; Neri Pozza Editore) l’autore di origine vietnamita rincara la dose tessendo un mosaico letterario che rappresenta perfettamente lo spaesamento e il senso di oblio di coloro che vivono ai margini, loro malgrado.
Quelle scritte da Viet Thanh Nguyen sono storie magnifiche, perfette. Il ritmo non cala mai, gli elementi sono sintetizzati magistralmente e i nodi narrativi collocati al punto giusto. C’è il racconto di una ragazza della diaspora vietnamita, vittima di abusi e violenze a bordo della barca sulla quale sta fuggendo dal suo Paese che deve convivere con il fantasma del fratello assassinato. C’è Liem, adottato da una coppia omosessuale a San Francisco che lo mette davanti agli enigmi della propria sessualità. C’è la signora Hoa, ossessionata dall’idea di vendicarsi dei comunisti che le hanno ucciso il figlio e che va in giro tra i rifugiati della comunità vietnamita di San Jose per finanziare una improbabile guerriglia nel sudest asiatico. C’è James Carver, nero cresciuto in Alabama, che a Quàng Tri, in Vietnam, si deve confrontare con la volontà della figlia, che lo accusa della sua vecchia professione di pilota di bombardieri durante la guerra.
I personaggi di Viet Thanh Nguyen sono consapevoli di non possedere nulla, se non le storie del passato, spesso dolorose, in ogni caso perdute per sempre. E seppur tutti i protagonisti abbiano in qualche modo a che fare con il Vietnam, i racconti fanno riflettere sui corsi e ricorsi della storia, data la drammatica attualità dell’argomento: basti pensare alla devastante situazione mediterranea e mediorientale. Ma la prosa puntuale e scevra di sentimentalismo di Viet Thanh Nguyen trasforma lo stato di rifugiato in una condizione mentale che è quella di chiunque: tutti siamo dovuti fuggire almeno una volta nella vita. “Le storie sono cose che fabbrichiamo: nient’altro. Le cerchiamo in un mondo che non è il nostro e poi le lasciamo qui perché qualcuno le trovi, come altrettanti indumenti abbandonati dai fantasmi”.