“In quel naufragio i nostri clienti videro annegare i loro figli. Oggi viene restituita loro almeno la fiducia nella giustizia italiana“. Parola di Alessandra Ballerini e Emiliano Benzi, i legali che difendono alcuni dei superstiti del naufragio dell’11 ottobre 2013, in cui morirono 268 migranti, tra cui almeno 60 bambini. Gli avvocati hanno commentato così la decisione del giudice per le indagini preliminari Giovanna Giorgianni di rigettare la richiesta di archiviazione del processo per il mancato soccorso del peschereccio lasciato per ore alla deriva a largo di Lampedusa. “Le leggi del mare, le convenzioni internazionali, il codice della navigazione e il codice penale imponevano agli ufficiali oggi imputati e alla comandante indagata di intervenire tempestivamente in soccorso dei naufraghi che si trovavano palesemente in situazione di pericolo. Come dice rispondendo alle domande del pm, uno degli ufficiali della marina militare: ‘Sono un pirata se faccio finta di niente e me ne vado’” hanno spiegato i difensori.

L’indagine è stata possibile grazie all’esposto di tre superstiti: il dottor Mohanad Jammo, Wahid Hasan Yousef e Hashash Manal, che in quel giorno persero le loro famiglie nel naufragio. Gli avvocati ripercorrono i fatti: “L’11 ottobre 2013 alle 12.26 giungevano le prime disperate richieste di aiuto dall’imbarcazione dove si trovavano i nostri assistiti insieme ad altri 400 profughi siriani in fuga dalla guerra (e tra loro circa un centinaio di bambini). La nave Libra della Marina Militare si trovava a una distanza di sole 19 miglia, ma interverrà solo dopo le 17.07, quando la nave si è già inabissata“. Sarebbe stato proprio quel ritardo a causare la morte di quelle persone, e da allora, i superstiti cercano tenacemente verità e giustizia per evitare che altre persone possano essere lasciate annegare come avvenuto a loro e ai loro compagni di viaggio.

Rigettata la richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma, il Gip ha ordinato al pubblico ministero di formulare l’imputazione a carico del comandante della sala operativa del Comando in capo della Marina militare, Luca Licciardi e del responsabile della centrale della Guardia costiera, Leopoldo Manna. L’ordine di non intervenire in soccorso, eseguito dalla comandante Catia Pellegrino, sarebbe infatti partito dal capitano di fregata Licciardi. Sebbene gli elementi raccolti nella prima fase di indagine non avrebbero evidenziato profili di responsabilità penale per la comandante della nave Libra, dalle memorie esposte negli atti per l’opposizione all’archiviazione dai legali dei superstiti emergono dettagli inediti che hanno portato il Gip a chiedere un supplemento di indagine per verificare le responsabilità dirette di Catia Pellegrino.

Chi si trovava a comando della nave Libra, infatti, avrebbe ignorando le ripetute, esplicite e inequivocabili richieste di intervento da parte dei piloti di un aereo della guardia costiera di Malta: la posizione di Catia Pellegrino potrebbe quindi aggravarsi, qualora venisse conferma la mancata risposta alle numerose segnalazioni avanzate sul canale 16 di emergenza da parte dei maltesi. Per gli imputati, il nucleo centrale delle fattispecie di reato è l’omissione di soccorso (ossia la violazione di un preciso di prestare assistenza, aggravato dalla posizione giuridicamente rilevante ricoperta dai militari) e omicidio colposo con dolo eventuale, reato compiuto da chi, pur di raggiungere uno scopo (già di per se illegittimo e illegale) accetta anche che le conseguenze della sua condotta possano essere più gravi di quanto non sia strettamente necessario per ottenere lo scopo, che in questo caso sarebbe stato quello di dirottare su Malta l’onere dei soccorsi in mare, causando così un ritardo di diverse ore nei soccorsi e, conseguentemente, la morte di oltre 300 persone.  Nell’ordinanza del Tribunale di Roma si definisce altresì “decisamente poco comprensibile” la preoccupazione di fare in modo che fosse la guardia costiere di Malta a coordinare i soccorsi, arrivata fino a dare “espressa indicazione” alla nave militare italiana più vicina di defilarsi fino a nascondersi alla vista delle motovedette maltesi, in un momento in cui gli ufficiali operanti nel comando, proprio con gli ordini impartiti, dimostrano la consapevolezza che la posizione in cui si trova la nave Libra finisca con l’imporre un intervento soccorritore che si cerca invece di evitare. Gli imputati rischiano ora una condanna per concorso formale e continuato in omicidio con dolo eventuale e omissione di soccorso ai sensi degli articoli 328 (rifiuto di atti d’ufficio e omissione), comma 1 (rifiuto di atti urgenti), e 589 (omicidio colposo), commi uno e tre del Codice Penale, per un totale massimo di 17 anni di reclusione. Il giudice per le indagini preliminari ha invece archiviato le posizioni di altri quattro militari, ritenuti estranei alla condotta dei loro colleghi.

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