Toivonen, Forsberg e Augustinsson. Le bestie nere dei pallidissimi azzurri di Ventura hanno nomi che ricordano un film di Ingmar Bergman. E il settimo sigillo gliel’hanno applicato proprio quei quattro cristoni biondi che di solito incontri alticci fuori da un pub. Lustig, Granqvist e Lindelof. La morte nera con la falce che ti viene a trovare. E non serve a nulla spostare pedoni, regina e re degli scacchi. Basta la sicumera da spazzini dell’area di rigore. Roba che nemmeno la Luisa che puliva con il Gled Magic Water. Ogni pallone finito alto nell’area di rigore gialloblu è ritornato ogni volta al mittente oltre il terzo anello di San Siro.
Per l’Italietta degli ottuagenari con lo sguardo torvo e dei giovani anonimi tutti creste, tatuaggi e svirgolate, non c’è stata partita. Farsi rimpallare, nella partita d’andata, ogni tentativo di cross da Krafth, uno che quando gioca nel Bologna i ventimila del Dall’Ara si riempiono le tasche di amuleti e corni, è una iattura di rara mestizia. Perché spesso i nomi di quelli che ti fanno lo scherzetto nel calcio suonano goffi e impronunciabili. Prendi Pak Doo Ik. Il celeberrimo ‘dentista’ che invece era caporale dell’esercito. Quel tizio degli undici dilettanti ‘ridolini’ della Corea del Nord che trafisse Albertosi al 42esimo del primo tempo alla terza partita del girone eliminatorio dei Mondiali d’Inghilterra nel 1966. Han Bong Zin, Yang Sung Kook e Ha Jung Won cancellarono dalla storia l’Italia di Rivera e Mazzola. Quella di Pivatelli e Schiaffino fu invece affossata nel fango del Windsor Park di Belfast. Annus Horribilis 1958. I gol di Wilbur Cush e Jimmy McIlroy sepelliscono gli azzurrini leggeri leggeri di mister Foni. I racconti dei giornalisti dell’epoca parlano di una figuraccia immensa dell’Italia contro l’Irlanda del Nord. Di un portiere tal Uprichard apparentemente ubriaco che nemmeno stava in piedi. Eppure anche lì l’Italia non segna. E i nomi strampalati degli avversari contano. Peacock, McMichael e McParland, i fratelli Danny e Jackie Blanchflower. Due che sembrano usciti da un film di gangster, giustiziano la nazionale italiana.
Altra nazionale, altro disastro. Olimpiadi di Seul del 1988. L’Italia olimpica di Tacconi e Ferrara si scontra con lo Zambia. Non è spareggio di alcunché. Passeranno comunque entrambe. Si gioca e si prosegue comunque. Ma gli africani sembrano supereroi con maglietta arancione e mantella nera. Segnano quattro gol agli azzurri di Francesco Rocca e fanno sprofondare l’Italia nel retrobottega del calcio. Kalusha Bwalya, Joseph Musonda, David Chabala. Bruno Pizzul di nomi ne azzecca pochini. E dopo ogni gol cala pure il silenzio. È il destino dell’Italia peggiore. Trovare cecchini sconosciuti con una mira improvvisamente precisa. E quando invece è il Milan di Sacchi, con l’aggiunta di Baggio, Pagliuca e i terzini del Parma ad arrivare in finale Mondiale nel 1994 a Pasadena negli Stati Uniti contro il Brasile, è la peggiore serie di rigori della storia della Nazionale a restituire la giusta vergogna azzurra, in altri casi raggiunta per limpido demerito e dolente pigrizia.
Penalty eguagliati in bruttezza, e relativa eliminazione di peso, solo da Pellè e Zaza nei quarti di finale contro la Germania a Euro 2016. Una sequela di tiracci che nemmeno nel campetto parrocchiale. Ma tanto si sa, quando si parla di rigori c’è sempre l’arbitro di mezzo. E come non ricordare quella macchietta di Byron Moreno che negli ottavi di finale dei Mondiali 2002, quando l’Italia affronta la Corea del Sud, ci regala momenti di esilarante arbitraggio casalingo? L’espulsione di Totti, in mezzo ad almeno altri quattro episodi fischiati contro l’Italia, come nemmeno Piero Ceccarini in Juve-Inter del 1998, vede un primo piano di Moreno mentre imita John Belushi sul palco del Bob’s Country Bunker in The Blues Brothers. L’unica vergognosa eliminazione italiana con una vergogna più grande ad oscurarne le pochezze di gioco. Per una volta. Prima della notte svedese. La più scialba di tutte.