I responsabili del disastro tutti ben saldi al loro posto sono simbolo di un paese in cui non si dimette nessuno. Gli italiani, però, non li dimenticheranno mai perché sono i colpevoli della fine di un rito pagano
Niente Mondiali. Niente polemiche sulle convocazioni. Niente sfide a Brasile o Germania. Niente ‘pizzate’ con gli amici davanti alla tv e alla partita della nazionale. Ma anche niente trasferte improvvisate in Russia, edizioni straordinarie dei giornali, promozioni nei negozi, indotto per bar, turismo e commercio. Niente notti magiche. Niente mondiali, appunto. Hanno distrutto un sogno, un pezzo dell’immaginario collettivo del nostro Paese. E la cosa più assurda, ancor più di un Mondiale senza Italia, un’eventualità che almeno tre generazioni non avevano mai neanche pensato di poter vivere, è che i responsabili di questo disastro sono tutti ben saldi al loro posto. Aggrappati alla poltrona e allo stipendio, simbolo perfetto della loro nazionale che hanno portato alla deriva.
Dallo 0-0 fatale di Italia-Svezia sono passate quasi 24 ore e non si è ancora dimesso nessuno. Da noi le tragedie non hanno colpevoli, non paga nessuno. Certo, stiamo parlando pur sempre di calcio. Ma nel calcio non c’è disastro più grande di una mancata qualificazione ai Mondiali, la massima manifestazione internazionale, un momento che capita una volta ogni quattro anni e intorno a cui gira tutto l’universo pallonaro. Che altro di peggio doveva succedere per farsi da parte? I danni sono semplicemente incalcolabili. Quanto a prestigio e immagine, inutile anche solo parlarne. Poi c’è l’aspetto economico: la mancata qualificazione comporterà una perdita per le casse della FederCalcio di almeno 25 milioni di euro, tutti i soldi che saranno tolti ai più piccoli, agli investimenti sulle giovanili e alla base, non certo ai grandi club che della nazionale se ne infischiano. Da ogni punto di vista, il ridimensionamento per il movimento è assicurato. Ma non c’è solo quello: per un Paese in crisi come l’Italia, non andare al Mondiale “è un fallimento anche sociale”, come ha detto giustamente Buffon, in lacrime alla fine del match. Significa togliere un momento di gioia collettivo, di riscatto, di unità ad un Paese attraversato da tanti conflitti e che solo nel pallone sembra in grado di ritrovarsi. Stavolta manco quello: ci aspettano due anni di nulla a livello internazionale in attesa di Euro2020, i Mondiali in Qatar 2022 saranno un esperimento invernale di dubbia riuscita: per la prossima estate mondiale dovremo aspettare praticamente 10 anni.
Ci rimettiamo tutti: calciatori e addetti ai lavori, semplici tifosi o appassionati occasionali. La premiata coppia Tavecchio-Ventura, però, fa spallucce e si attacca alla poltrona. È questa la loro grande risposta a una disfatta epocale che ha un solo precedente nella storia, 60 anni fa. L’era Ventura, per carità, è già finita: lì è solo una questione di vile denaro. Anche lui sa che non metterà più piede sulla panchina azzurra, ma non ha avuto nemmeno la dignità di farsi da parte da solo: aspetta di essere cacciato, per incassare ciò che resta del suo stipendio o almeno una buonuscita, mezzo milione di euro con cui consolarsi dall’essere passato alla storia come il commissario tecnico peggiore di sempre. Tavecchio, invece, il capo dei capi, che Ventura l’aveva scelto, si aggrappa al potere: nonostante i suoi 74 anni e il fallimento, non sembra per nulla intenzionato a lasciare. Si nasconde, non parla, aspetta.
Solo in Italia, il Paese degli Schettino e delle teste che non cadono mai, poteva succedere una cosa del genere. Ventura e Tavecchio sono peggio persino di Matteo Renzi, che dopo il referendum del 4 dicembre almeno una finta di passare la mano l’aveva fatta, salvo poi ripresentarsi dopo pochi mesi (e ora invitare i due a “riflettere“, dalla sua posizione di segretario Pd). Loro manco questo, nemmeno le apparenze. Forse sperano di potersela cavare: fare melina (proprio come la nazionale in campo), ripararsi mentre sfoga la tempesta per uscirne indenni e centrare il loro obiettivo. Uno incassare l’assegno che tanto gli sta a cuore e godersi la pensione (nessuno lo richiamerà più in panchina), l’altro restare in sella alla guida della FederCalcio. Ma si sono fatti male i conti. Il pallone in Italia è una cosa molto più seria di quanto pensino: il loro fallimento diventerà un caso politico (le prime dichiarazioni, dal ministro Luca Lotti al presidente del Coni Giovanni Malagò, passando per Pd, Movimento 5 stelle e Forza Italia, già fioccano), resistere alle pressioni incrociate sarà quasi impossibile. E gli italiani, “popolo che perde le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre”, non li dimenticheranno mai.