La Trans-Pacific Partnership (TPP) sopravviverà anche senza gli Usa. Ma con un nuovo nome: Comprehensive and Progressive Agreement for the TPP (CPTPP). Un’intesa di massima sul nuovo accordo  è stata raggiunta nel weekend, a margine del vertice Apec di Danang (Vietnam), dopo tre giorni di tribolate consultazioni a livello ministeriale tra gli 11 Paesi superstiti (Giappone, Australia, Canada, Messico, Singapore, Malaysia, Vietnam, Cile, Perù, Nuova Zelanda e Brunei). Secondo quanto affermato dal ministro del Commercio e dell’industria vietnamita Tran Tuan Anh, il trattato conserverà elevati standard commerciali e ambientali sebbene si procederà alla sospensione di 20 disposizioni, di cui 11 riguardanti la proprietà intellettuale .

La firma finale potrebbe arrivare già il prossimo anno, una volta raggiunta l’intesa su quattro aree ancora da definire, mentre occorrerà attendere la ratifica di almeno sei Paesi perché l’accordo entri pienamente in vigore. “C’è ancora molto lavoro da sbrigare, ma parecchi progressi sono stati fatti quest’oggi”, ha commentato il ministro del Commercio canadese Francois-Philippe Champagne, citando l’automotive e la protezione dei posti di lavoro tra i nodi insoluti. Proprio le resistenze di Ottawa – già alle prese con il NAFTA – e l’accidentale defezione del premier Justin Trudeau hanno rischiato di far deragliare i colloqui.

Anche se ritoccata e ribattezzata, in linea di principio, la partnership si impegna a mantenere validi i principi raggiunti nel febbraio 2016, quando a guidare le negoziazioni dell’allora TPP c’era ancora Washington. L’idea di fondo è quella di un mercato comune sulla falsariga dell’Unione Europea, in cui il consolidamento dei legami economici tra i Paesi firmatari avviene attraverso il taglio dei costi delle esportazioni e l’eliminazione delle tariffe sui prodotti industriali e agricoli. Ma per Donald Trump, che ha inserito il ritiro degli Stati Uniti tra le sue priorità da presidente, l’accordo mette a rischio posti di lavoro in America e implica uno spostamento della produzione verso i mercati emergenti.

“Continueremo ad andare avanti, ma saremo ben felici di accogliere nuovamente gli Stati Uniti se decideranno di tornare indietro”, ha affermato Ichiro Fujisaki, ex ambasciatore nipponico a Washington, ribadendo l’impegno del Giappone (l’economia numero uno dei superstiti “Ocean’s Eleven”) nel farsi promotore delle future contrattazioni.

Senza la superpotenza, l’accordo – che rimane ugualmente il più imponente della storia – vede alleggerirsi il proprio peso a livello globale, arrivando a contare per il 13,5% del Pil mondiale, rispetto al 40% vagheggiato originariamente. Mentre la semplice sospensione del capitolo su copyright e IP – fortemente voluto dalla precedente amministrazione – lascia potenzialmente spazio a un reinserimento degli States, il nuovo inquilino della Casa Bianca non sembra nemmeno lontanamente intenzionato a valutare tale possibilità. Rinnegando la passata partecipazione americana alle sinergie multilaterali, Donald Trump ha ribadito alla platea Apec che gli Stati Uniti non tollereranno più di “essere sfruttati a vantaggio di altri” attraverso l’apertura del proprio mercato senza precondizioni.

Un discorso dalle sfumature protezionistiche a cui il presidente cinese Xi Jinping ha risposto rinnovando l’impegno dell’ex Celeste Impero nel sostenere un mondo multipolare sempre più aperto e globalizzato. La competizione tra le due sponde del Pacifico non potrebbe essere più agguerrita. Da anni, Pechino ha in cantiere una propria versione della TPP, la Regional Comprehensive Economic Partnership, che ingloba sette membri del trattato trans-pacifico e, secondo la legge del contrappasso, ignora la prima economia mondiale.

Secondo l’ex viceministro del Commercio Wei Jianguo, il peso dell’economia cinese (che conta per il 15% del Pil globale) renderà innocue le ripercussioni di una possibile finalizzazione della nuova TPP a 11. In compenso, gli Usa perdono quello che fino allo scorso anno è stato considerato il “Cavallo di Troia” del “Pivot to Asia” statunitense, lanciando in pasto agli alleati asiatici l’evanescente idea di una partnership “dell’Indo-Pacifico”, in cui – almeno idealmente – le democrazie regionali (Usa, India, Giappone e Australia) acquistano prominenza a discapito della Cina (vero fulcro dell’Asia-Pacifico).

Tra gli altri player del quadrante domina l’incertezza. Il vertice Apec si è concluso sabato con una dichiarazione congiunta in cui si auspica non solo una maggiore apertura dei mercati ma anche una correzione delle “pratiche commerciali sleali”, la sospensione dei sussidi statali e un miglioramento della funzione della World Trade Organisation’s (WTO) nella risoluzione delle controversie . Un raro compromesso che, malgrado tutto, strizza l’occhio alle richieste di Trump. Perché se il lunatico presidente americano ispira poca fiducia, l’idea di un ordine globale interamente plasmato da Pechino è fonte di anche maggiori preoccupazioni.

di China Files per il Fatto

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