di Antonio Aloisi* e Valerio De Stefano**
La cosiddetta gig-economy o “economia dei lavoretti” è da qualche tempo sotto i riflettori ma, per il momento, il tema della tutela dei lavoratori resta ai margini del dibattito, nonostante si faccia un gran parlare del “futuro del lavoro”.
Pochi giorni fa, il Tribunale di Appello del Lavoro di Londra ha confermato che gli autisti di Uber sono workers. Contrariamente da quanto sostenuto da alcuni improvvisati commentatori nostrani, questo non vuol dire che siano stati dichiarati subordinati, con diritto a tutte le protezioni dei lavoratori dipendenti. Nel Regno Unito, i “workers” sono un mondo intermedio tra subordinazione e autonomia, nel quale ricadono quei lavoratori autonomi che non gestiscono business indipendenti. I workers hanno diritto al salario minimo e alle ferie pagate. Sono però esclusi da altri importanti capitoli del diritto del lavoro, primo tra tutti la protezione contro i licenziamenti.
Il tribunale londinese ha riconosciuto che gli autisti di Uber non sono “padroncini” autonomi ma dipendono invece dalla società californiana, la quale fissa i prezzi delle corse unilateralmente, suggerisce il percorso più breve e impone di utilizzare un certo tipo di autovetture e abbigliamento. Soprattutto, Uber utilizza i “voti” con cui i consumatori valutano gli autisti a fine corsa come un meccanismo “disciplinare”: gli autisti che non mantengono quotazioni alte sono esclusi dalla piattaforma.
La questione non si ferma al Regno Unito e non riguarda certamente solo Uber. Molte altre società simbolo della “gig-economy” sono in forte espansione anche da noi: ci fanno consegnare il cibo, pulire la casa o portare a spasso il cane. Il modello gioca quasi sempre al confine, sempre più labile, tra subordinazione e autonomia: i lavoratori sono qualificati come autonomi senza diritto alle protezioni giuslavoristiche. Sono però coordinati strettamente dalle piattaforme, anche tramite i voti di noi consumatori: qualcosa su cui riflettere, la prossima volta che siamo tentati di dare un pessimo giudizio a chi ci porta l’hamburger a domicilio con cinque minuti di ritardo. Se aveste saputo che il fattorino corre il rischio del licenziamento e si trova a fare l’ennesima consegna della serata – da un capo all’altro della città – con i tempi minuziosamente monitorati dalla piattaforma, avremmo assegnato un voto più benevolo? Probabilmente sì, specie se si tiene conto che non si tratta di semplici lavoretti per arrotondare.
Le ricerche, infatti, dicono che, per molti lavoratori, il compenso ricevuto dalle piattaforme costituisce la principale fonte di reddito e che le ore spese al volante, sulla sella o al computer sono spesso pari a quelle di un lavoro full-time. Inoltre, la reale autonomia della prestazione e la flessibilità oraria rimangono spesso un miraggio: se si saltano i “turni” si rischia di venire esclusi da future “commissioni”.
Insomma, è ora di occuparsi seriamente delle condizioni di lavoro nella gig-economy, verificando le differenze (e sono molte) tra le varie piattaforme, e identificando le tutele applicabili ai lavoratori. Al momento, in Italia è pendente la prima causa per la riqualificazione di lavoro tramite piattaforma: sei fattorini di Foodora hanno chiesto al giudice di riconoscere la propria subordinazione e quindi l’accesso alle piene tutele sul lavoro.
A prescindere dai tribunali, però, c’è bisogno di una riflessione complessiva su un mondo del lavoro in cui si assiste alla frantumazione dei rapporti in periodi d’impiego sempre più brevi ed estemporanei che determinano protezioni legali e sindacali insufficienti e, di conseguenza, retribuzioni risicate. Non si tratta solo della gig-economy, ma di porzioni sempre più ampie del mercato, basti pensare alla vicenda dei voucher. Che sia subordinato o autonomo, accessorio o occasionale, va applicato un principio fondamentale della nostra Costituzione: il lavoro è lavoro, e come tale va rispettato e tutelato.
Le pratiche di “management tramite algoritmo” vanno regolate: si deve evitare che i business possano sbarazzarsi arbitrariamente dei lavoratori, negandogli accesso alla piattaforma senza minimi criteri di trasparenza. Va anche capito che, dove c’è subordinazione, il diritto del lavoro va applicato in toto, senza creare zone franche solo perché la tecnologia “fa tanto cool”; va infine portata a compimento una riflessione sulle tutele del lavoro autonomo, che spesso rimangono lettera morta.
La diatriba sulle trasformazioni che attraversano il mercato del lavoro impone uno sforzo di tutti: meno futurologia e più realismo. Solo così si prenderà sul serio il lavoro di oggi. E s’inizierà a migliorarne la qualità, perché – al riparo dallo stillicidio dei numeri – di questo c’è grande bisogno.
*Antonio Aloisi studia e insegna diritto del lavoro presso l’Università Bocconi di Milano dove sta completando un dottorato di ricerca sul lavoro tramite piattaforma. In passato, ha lavorato per il Ministero dell’Istruzione e svolto ricerca presso la Saint Louis University, negli Usa.
**Valerio De Sefano insegna diritto del lavoro all’Università di Lovanio (KU Leuven), in Belgio. In passato ha studiato e insegnato presso la Bocconi di Milano, ha fatto l’avvocato giuslavorista e ha lavorato presso l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, un’agenzia specializzata delle Nazioni Unite con sede a Ginevra.