Il Venezuela, in piena crisi istituzionale, da martedì è anche un paese in default. A sancirlo è stata l’agenzia di rating Standard&Poor, dopo che Caracas ha saltato il pagamento di una rata da 200 milioni di dollari di interessi sui suoi bond. Altre due agenzie di rating, Fitch e Moody’s, hanno dichiarato in default la compagnia petrolifera statale Pdvsa che non ha versato agli obbligazionisti le rate dovute il 27 ottobre e il novembre. Dal canto suo il presidente Nicolas Maduro, che ha sostituito il Parlamento in mano all’opposizione con un’Assemblea costituente considerata illegittima dalla comunità internazionale, ha definito un “un successo clamoroso” la riunione con i detentori esteri di titoli del debito pubblico e del gruppo petrolifero. Che si è in realtà conclusa senza che sia stata presa alcuna decisione né presentata alcuna proposta su un’eventuale ristrutturazione di bond per un totale di circa 60 miliardi di dollari.
Intanto la Borsa di Lussemburgo ha sospeso le operazioni sui bond venezuelani a scadenza 2019 e 2024 a causa di un “default event” e a New York la International Swaps and Derivatives Association – organismo che riunisce i principali attori sul mercato dei derivati – deve rispondere ai detentori di titoli che le hanno chiesto se il Venezuela e la Pdvsa vadano considerati in default. Una risposta positiva farebbe scattare le assicurazioni sugli investimenti. Una mano arriva però da Mosca, che ha dato luce verde alla ristrutturazione del debito da 3,15 miliardi di dollari del Venezuela: sarà ripagato “entro 10 anni” con rate “minime” nei primi sei anni, ha spiegato il ministero delle finanze russo.
Davanti ai creditori martedì è intervenuto il vice presidente venezuelano Tareck el Aissami, che si è limitato a leggere una dichiarazione nella quale si afferma di voler “superare, attraverso meccanismi seri, chiari e trasparenti, concordati con i detentori dei titoli, le complessità generate artificialmente da coloro che – dall’amministrazione Trump ai suoi alleati politici venezuelani – cercano di danneggiare la nostra economia”. “Ci hanno dato un tappeto rosso, una guardia d’onore, una borsa omaggio con caffè e cioccolatini e un lungo discorso antiamericano, ma in quanto al debito estero non ne sappiamo più di quanto potevamo supporre prima dell’incontro”, ha commentato il rappresentante di una banca d’affari europea.
Caracas attribuisce la colpa dei mancati pagamenti alle sanzioni americane, tra cui il divieto di esportare petrolio negli Usa. A cui si sono aggiunte due giorni fa quelle europee, le prime imposte da Bruxelles a un Paese sudamericano. Il Consiglio Ue alla luce della “polarizzazione politica” nel paese ha deciso tra l’altro l’embargo alla vendita di armi e di altro materiale che potrebbe essere usato a fini di repressione interna. Inoltre è stato definito “un quadro legale” per il congelamento dei beni e il divieto di viaggio nella Ue. Misure che saranno utilizzate “in modo graduale e flessibile”: potranno essere ampliate “prendendo di mira coloro che sono coinvolti nel non rispetto dei principi democratici, dello Stato di diritto e della violazione dei diritti umani” o ritirate “a fronte dello svolgimento di negoziati credibili e significativi, del rispetto delle istituzioni democratiche, delll’adozione di un calendario elettorale competo e della liberazione di tutti i prigionieri politici“.
Le misure “non sono concepite per danneggiare la popolazione del Venezuela, le cui difficoltà l’Ue desidera alleviare”, ha scritto il Consiglio appellandosi sia al governo venezuelano perché “ripristini urgentemente la democrazia, con elezioni libere e regolari” sia all’opposizione affinché “si impegni in modo unitario per una soluzione negoziata, nell’interesse del Paese”. Invito non raccolto: la coalizione antichavista del Tavolo dell’Unità Democratica ha fatto sapere che non si presenterà al previsto incontro con il governo convocato nella Repubblica Dominicana, perché non sono stati invitati i ministri degli Esteri dei paesi che accompagnano il processo di dialogo a Caracas. Maduro ha risposto alla Ue definendo le sanzioni “illegali ed assurde” e avvertendo che “esige all’Ue che cessi le sue azioni ostili e prenda le distanze dell’agenda bellicista ed interventista del governo statunitense, che tanti danni ha provocato al nostro paese e al mondo intero”.
Il verdetto delle agenzie di rating complica la situazione di un Paese già stremato da una grave crisi economica e un’inflazione galoppante, in recessione dal 2013. Il Venezuela è entrato in iperinflazione il mese scorso e la moneta resta in caduta libera: la banconota da 100mila bolivar, la più alta in circolazione, vale meno di due dollari sul mercato nero meno un mese dopo il suo lancio. Il regime di Maduro negli anni scorsi ha imposto prezzi politici per tutti i beni di prima necessità, che ora sono impossibili da trovare se non sul mercato parallelo. La popolazione è allo stremo, con più dell’80% delle famiglie in povertà estrema. Inoltre l’Opec ha confermato nel suo ultimo rapporto mensile che la produzione di petrolio del paese – che rappresenta il 95% degli introiti di valuta estera – è scesa al di sotto dei 2 milioni di barili al giorno nello scorso ottobre, la cifra più bassa registrata da 28 anni. Anche l’agenzia cinese di rating Dagong Global ha dichiarato che esiste una “considerevole incertezza sulla capacità del governo venezuelano di pagare i debiti in scadenza, il che può portare a un alto rischio di default”.
Anche le aziende italiane che operano nel Paese stanno risentendo della crisi in Venezuela. Astaldi ha svalutato per 230 milioni di euro la propria esposizione verso il Paese, chiudendo i 9 mesi con perdite per 88 milioni dall’utile per 55 milioni un anno fa e mandando in fumo le previsioni per fine anno, con un esercizio atteso ora in rosso. Il gruppo delle costruzioni e delle infrastrutture ha dovuto varare un rafforzamento patrimoniale da 400 milioni di euro.