Pubblichiamo in anteprima un estratto di “Diario inconsapevole” (HarperCollins), libro di memorie firmato da Giuseppe Tornatore, grazie ad un accordo con l’editore effettuato il 16 ottobre scorso. Il volume è andato in stampa nell’agosto 2017 tre mesi prima delle accuse di molestie al regista palermitano. Tra scritti editi e inediti in prima persona, Diario Inconsapevole racconta trent’anni di vita e di cinema di uno dei più importanti cineasti italiani di fine secolo, premio Oscar nel 1989 per Nuovo Cinema Paradiso: dalla Sicilia dell’infanzia ai grandi miti della cultura del dopoguerra (Guttuso, Antonioni, Fellini, Welles)
Quando tornò a Palermo, una sua fotografia apparve in giro per la città. Il manifesto diffuso subito dopo la sua nomina a segretario regionale del Pci. Era un bellissimo primo piano in bianco e nero, in cui però indossava un paio di occhiali con degli strani decori che lo invecchiava. Ne rimasi colpito, era proprio quella montatura a invecchiarlo. E anche i capelli che cominciavano a ingrigirsi. Di quel periodo ricordo un’importante assemblea pubblica del partito. C’erano argomenti scabrosi da affrontare. Un gruppo di compagni della provincia era stato messo in discussione per questioni riguardanti il mondo delle cooperative. Lui era attento, ascoltava gli interventi, prendeva appunti, segnava tutto. Ti dava la sensazione di uno che faceva politica quasi con l’atteggiamento di un soldato. Un soldato che deve capire, attrezzarsi, e prepararsi a qualunque evenienza. Convinto che tutto quanto gli accada intorno possa essergli utile a comprendere le cose. Mentre un compagno interveniva, in terza fila magari qualcuno s’avvicinava a un altro con un commento, una parola, o semplicemente un verso, un sospiro, una battuta di spirito a mezza voce. Pio captava. Lo conosceva bene il comportamento di quello strano animale che è la folla. Se ne intendeva. Era in grado d’interpretare il suo respiro, cogliere i silenziosi segnali che sapeva mandargli. Era costantemente concentrato. Sintonizzato con il contesto che lo circondava. E il suo sguardo improvvisamente diventava acuto, talvolta lucido di ironia o scuro di presagio. Leggeva. Leggeva la folla. Convocava tutti i segretari di sezione, i dirigenti delle associazioni e dei sindacati della fascia costiera, intellettuali, storici e industriali, per conoscere il loro punto di vista sulle emergenze dell’isola e il dilagare del potere mafioso. Incontrava i magistrati, faceva tesoro delle loro esperienze, interrogava chiunque ricoprisse ruoli pubblici. Insomma, era un politico investigatore. Stava istruendo un’indagine difficile e articolata, in cui metteva in gioco tutto il suo rapporto con la Sicilia. Erano anni terribili quelli, gli anni dei grandi omicidi politici: ’79, ’80, ’81, ’82. Era una guerra. E lui era tornato per combattere. Infatti, per quello che ricordo, il concetto intorno al quale prende corpo la famosa legge Rognoni-La Torre, cioè la definizione di associazione a delinquere di stampo mafioso, fu concepito da lui. Se ne parlò a lungo, dentro e fuori il partito, prima che la legge venisse approvata: era un’idea rivoluzionaria. Se tre o più persone hanno relazioni tra di loro riferite ad affari di illecito guadagno, questa è mafia. Un teorema che andava oltre la grande intuizione di Leonardo Sciascia quando diceva: «Basta guardare dentro le tasche della mafia per combatterla». Il passo di La Torre era notevole. Seguire il denaro della mafia prima che andasse a finire in banca, per risalire alla rete che gestisce gli affari mafiosi nel contesto della vita economica del Paese. Basta intercettare almeno tre persone legate tra di loro da attività illegali perché siano dichiarate mafiose e dunque perseguibili. Un’innovazione dirompente. Era la bomba atomica che Pio La Torre studiava per mettere in ginocchio la mafia. E infatti suscitò molto scalpore. Il mondo dell’antimafia esultò, ma tra le fila dei partiti che amministravano i più grandi comuni siciliani si diffuse un indignato terrore. «Ma allora se io devo comprare una casa e coinvolgo mio cugino che ne parla con suo cognato? Minchia, che siamo mafiosi?!»: in questo stralcio di conversazione che mi capitò di raccogliere ai margini di una seduta del Consiglio comunale, sicuramente si voleva travisare il senso della legge, ma nel contempo se ne indicava una debolezza, e cioè che la si poteva applicare in modo distorto. Un rischio calcolato, probabilmente, ma La Torre si rendeva conto che per interpretare quell’immenso fiume di denaro sporco che invadeva il Paese era necessario che lo Stato si attrezzasse di nuovi e implacabili strumenti legislativi. In Sicilia il Pci aveva mandato una mente capace di elaborarli. E il mondo nemico che gli stava di fronte si preparava a reagire con il solo linguaggio che sapeva usare.
Fonte Originaria: Giuseppe Tornatore. Prefazione a: Filippo La Torre, Franco La Torre e Riccardo
Ferrigato, Ecco chi sei. Pio La Torre, nostro padre, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2017.
Ora in “Diario inconsapevole”, HarperCollins