Oggi Jorge Mario Bergoglio ha marcato, ancora una volta e di netto, la differenza tra se stesso e i massimi livelli della classe politica italiana. Lo tacciano di populismo, ma con il messaggio inviato al convegno sul tema del fine vita promosso dalla Pontificia Accademia per la vita (notare bene, non esistevano leggi, prescrizioni o motivazioni che gli avrebbero impedito di farlo in qualsiasi altra sede o momento), Francesco ha indicato una direzione alla sua Chiesa e al suo popolo, non curandosi del fatto che non tutti all’interno della stessa istituzione e del gregge dei fedeli la pensano allo stesso modo. L’esatto contrario di ciò che fanno i capi dei partiti che affollano le stanze di Montecitorio e Palazzo Madama, i quali non aprono bocca prima di aver consultato gli ultimi sondaggi e aver constatato in quale direzione tira il vento (tipo l'”aiutiamoli a casa loro” pronunciato da Matteo Renzi sui migranti a pochi mesi dalle elezioni, in un Paese in cui spirano forti i venti venefici del razzismo) per timore di perdere voti o l’appoggio di correnti, anime e microminoranze varie che pascolano per il Palazzo.

Ecco perché per Bergoglio in questo senso può essere utilizzata la definizione di “classe dirigente“: perché si è dimostrato capace di interpretare il suo tempo e indicare la direzione da prendere, in un certo momento storico su un determinato tema non curandosi di ciò che dice la pancia o gli interessi di coloro ai quali il messaggio e l’indicazione sono diretti. A differenza dei vari leader e leaderucci che dicono quello che i loro elettorati vogliono sentirsi dire, pur ribadendo il no all’eutanasia, Francesco ha capito che il Paese è pronto per un’evoluzione e non ha avuto timore di ribaltare decenni di indicazioni del magistero, definendo “moralmente lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli, quando il loro impiego non corrisponde a quel criterio etico e umanistico che verrà in seguito definito proporzionalità delle cure”.

Francesco ha messo, cioè, in primo piano la centralità del paziente nel processo decisionale che riguarda la fine della sua stessa vita e ha affermato così un principio così laico che più laico non si può. E non ha avuto il timore di farlo dinanzi al popolo cattolico guidato per decenni a pensarla in modo totalmente opposto e in cui un nutrito schieramento lo considera poco più di un prete di campagna che parla come se facesse catechismo e non è in grado di articolare il più elementare dei ragionamenti teologici. Ha superato anche i timori del fuoco amico e della prevedibile opposizione di organismi ecclesiastici come la Conferenza Episcopale Italiana che, pronunciandosi recentemente sul ddl sul Biotestamento bloccato in Senato, ha condannato il principio dell’autodeterminazione della persona “trionfo dell’individualismo”.

“Bergoglio fa il Papa e non deve preoccuparsi di essere votato alle elezioni”, la prima probabile obiezione. E’ vero, il Pontefice non ha il problema di di garantire a se stesso un futuro lavorativo dopo la fine del mandato. Ma non è poi quello che tutti i politici, di tutti gli schieramenti, a tutti i livelli giurano di non voler fare? “Non sono interessato alla poltrona” non è forse il versetto più recitato di un mantra universale ripetuto a ogni gradazione istituzionale quando la convenienza lo impone?

La seconda probabile obiezione, questa dei cattolici integralisti che non hanno preso bene l’apertura del Papa quando in Parlamento ancora ci sono i tempi tecnici per l’approvazione del ddl sul Biotestamento: ma i laici una volta non prendevano male le ingerenze della Chiesa nella vita politica italiana? E’ vero anche questo, ma è anche vero che gli interventi del Vaticano sono andati finora in un’unica direzione, quella della conservazione estrema dello status quo sul terreno dei temi etici. Quindi se valgono le fatwe della Cei contro le nozze gay, valgono anche le parole con cui Bergoglio apre al diritto di scegliere per chi sta morendo e sa che la medicina non è più in grado di salvarlo.

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