È in fin di vita il boss corleonese Totò Riina. Malato da tempo, è ricoverato nel Reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Il capomafia, in coma da giorni dopo due interventi chirurgici, compie oggi 87 anni. Arrestato il 15 gennaio del 1993 dopo 24 anni di latitanza, è ancora considerato dagli inquirenti il capo indiscusso di Cosa nostra. Sembra che dopo le operazioni siano intervenute complicazioni che hanno costretto i medici a sedare il boss mafioso. Con il parere positivo della Procura nazionale antimafia e dell’Amministrazione penitenziaria, quindi, il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, ha firmato il permesso per la moglie e i figli di Riina: potranno stargli vicino nella struttura sanitaria emiliana.
Il padrino corleonese sta scontando 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del ’92 in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e quelli del 1993 a Milano, Roma e Firenze. Fu lui a lanciare Cosa nostra in un’offensiva armata contro lo Stato nei primi anni ’90, dopo che le condanne del Maxi processo divennero definitive. Mai avuto un cenno di pentimento, irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa si vantava dell’omicidio di Falcone parlando con il codetenuto Alberto Lorusso nel carcere milanese di Opera. E nella stessa occasione continuava a minacciare di morte magistrati come il pm Nino Di Matteo. L’ultimo processo a suo carico, ancora in corso, è quello sulla trattativa Stato-mafia, in cui è imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato insieme a carabinieri come Mario Mori e Antonio Subranni e politici come Marcello Dell’Utri e Nicola Mancino.
Nelle ultime settimane Riina è stato operato due volte. I medici hanno da subito avvertito che difficilmente il boss, le cui condizioni sono da anni compromesse, avrebbe superato gli interventi. Nel luglio scorso tribunale di Sorveglianza di Bologna aveva rigettato la richiesta di differimento pena o di detenzione domiciliare presentata dai suoi legali per ragioni di salute. La sua pericolosità sociale è ancora attuale e i giudici ritenevano “degno di nota” un colloquio video-sorvegliato con la moglie, risalente allo scorso 27 febbraio 2017, nel quale il capo dei capi affermava: “A me non mi piegheranno… mi posso fare anche 3000 anni”. E “altrettanto significativo”, scrivevano, è un passaggio durante il quale i coniugi “giungono ad affermare che i collaboratori di giustizia vengono pagati per dire il falso”.
Secondo i giudici, quindi, Riina appariva “ancora in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra”, nonostante le sue condizioni di salute e l’età ormai avanzata e “va quindi ritenuta l’attualità della sua pericolosità sociale”. “La lucidità palesata” da Riina e “la tipologia dei delitti commessi in passato (di cui è stato spesso il mandante e non l’esecutore materiale) – si leggeva nell’ordinanza – fanno sì che non si possa ritenere che le condizioni di salute complessivamente considerate, anche congiuntamente all’età, siano tali da ridurre del tutto il pericolo che lo stesso possa commettere ulteriori gravi delitti (anche della stessa indole di quelli per cui è stato condannato)”. Frasi pronunciate appena 3 mesi prima che la Cassazione affermasse l’esistenza di un “diritto a morire dignitosamente”. I supremi giudici, infatti, invitavano il giudice a verificare e motivare “se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità” da andare oltre la “legittima esecuzione di una pena”. Le risposte dei giudici alle considerazioni della Cassazione sono contenute nel ragionamento relativo alla “assoluta tutela del diritto alla salute” garantito a Parma e in quel “ancora in grado di intervenire nelle logiche di Cosa Nostra”.
Quando è tornato davanti dai giudici, quindi, l’avvocato Luca Cianferoni ha mostrato una relazione di quattro pagine proprio dell’ospedale emiliano che, a suo avviso, certificherebbe “l’aggravarsi progressivo e netto del quadro clinico di Riina”. Non è bastato per convincere i giudici, secondo i quali nel carcere di Parma è “palese” che vi sia “l’assoluta tutela del diritto alla salute sia fisica che psichica del detenuto”, visto che da oltre un anno e mezzo il boss è “in stanza dotata di tutti i presidi medici e assistenziali necessari alla cura di una persona anziana”. Quindi “non potrebbe ricevere cure e assistenza migliori in altro reparto ospedaliero ossia nel luogo in cui ha chiesto di fruire della detenzione domiciliare”, ragionano Fiorillo e la relatrice Manuela Mirandola. Riina, aggiungono, “viene assistito giornalmente da un fisioterapista” e “dispone quotidianamente, senza necessità di spostamento alcuno, di un importante intervento assistenziale espressamente finalizzato al mantenimento della residua funzionalità muscolare”.
Il figlio Salvo ha scritto su Facebook, ottenendo quasi 500 like al post e diverse decine di auguri al boss tra i commenti: “Per me tu non sei Totò Riina, sei il mio papà. E in questo giorno per me triste ma importante ti auguro buon compleanno papà. Ti voglio bene, tuo Salvo”. Nelle ore successive, i famigliari hanno avuto il via libera dal ministero della Giustizia per recarsi al capezzale del padre. Tra i primi a commentare le condizioni di salute del capo dei capi c’è stata l’Associazione dei parenti delle vittime della strage dei Georgofili (“Dio abbia pietà di lui, non non lo faremo”). Di diverso tenore il commento di Claudio Fava, deputato di Mdp e componente della commissione Antimafia: “Spero che non lo lascino morire in carcere da detenuto. La differenza tra loro e noi è che a noi non serve alcuna vendetta. E che la dignità della morte va riconosciuta anche a chi l’ha negata alle proprie vittime”.