La mossa tanto attesa della Commissione Affari Costituzionali, che con ddl ufficializza definitivamente il riconoscimento de “il Canto degli Italiani” (vulgo “di Mameli”) quale inno nazionale, ha suscitato unanime entusiasmo nell’intera penisola; mentre un’ondata di spirito patriottico già spingeva fino a notte inoltrata larghi strati della popolazione a far risuonare sotto i mille campanili del Bel Paese i versi e le note della veneranda composizione risorgimentale.
Le alate parole che gli eroi del nostro calcio nazionale, con quelle loro belle voci stentoree e stonate, hanno intonato sui prati erbosi di mezzo mondo – dalla rocciosa Macedonia alla fatale Scandinavia – quale Diana guerriera per l’annuncio di sempre nuovi trionfi.
O no?
In effetti l’inno in questione è un canto malaugurante, con l’accompagnamento musicale a marcetta composto dal maestro Michele Novaro nel novembre del 1847, perfetto per l’esecuzione di un’orchestra composta da trombette e grancassa, quale sintonica colonna sonora di un Paese che ha fatto della retorica militaresca una teatralità trombonesca. Pura smargiassata da ruggito del topo. Con annesso ammiccamento del “mica si fa sul serio”.
Difatti un perfetto premier italiota quale Silvio Berlusconi, intonando il fatidico verso “siam pronti alla morte”, ostentava scaramanticamente il gesto delle corna.
E con ciò si arriva al testo, opera di Goffredo Mameli, che lega l’epopea ottocentesca con quella del Terzo Millennio del fu cavaliere di Arcore. E la parola chiave è “fratelli”; il ricorrente appellativo che imbastisce un filo di continuità plurisecolare, dai framassoni risorgimentali fino al piduista Berlusca. Tutti affratellati dal “grembiulino”, che negli anni e nei decenni nascondeva lo smarrimento delle ragioni originarie motivanti la segretezza massonica (la difesa del libero pensiero delle rivoluzioni borghesi che imponeva appartenenze “coperte”); gradatamente sostituite dall’affarismo e dall’allestimento delle relative cordate.
Francamente lascia basiti l’adozione unanime, da parte del Parlamento, di questo biglietto da visita dello Stato che proclama un patrimonio ideale reso definitivamente fasullo dall’avvenuto, definitivo, deterioramento dei valori a cui continua a riferirsi. Seppure ancora in grado di obnubilare anime semplici o di sedurre menti astute con l’esibizione di una potenza in larga parte fittizia. Si narra che il maestro venerabile Licio Gelli, gran capo della loggia Propaganda Due, solesse impressionare i nuovi adepti mettendoli in contatto telefonico con i Vip desiderati. La cui voce era simulata alla perfezione nella cornetta dall’imitatore fratello Alighiero Noschese.
Né valga a riabilitare questo plesso di non indimenticabili precedenti, sotto forma di canzonetta, la sponsorship di un rispettabile presidente della Repubblica quale Carlo Azeglio Ciampi; che in più occasioni incoraggiò dal Quirinale la ripresa di tale abitudine canora – in particolare da parte dei titani del pallone – in quanto dichiarata “energetica”.
Non a caso da più parti si era segnalata una vicinanza “spirituale” di Ciampi alla fratellanza in grembiule e alla sua morte un comunicato del Grande Oriente d’Italia – Palazzo Giustiniani ne celebrò il rispetto verso la propria organizzazione e le di lui affiliazioni internazionali; dalla loggia Montesquieu alla White Eagle.
Ormai tanta acqua è passata sotto i ponti. Resta solo da domandarci quanto questo Paese sempre più diviso per bande abbia bisogno di riconoscersi nei versi arcaici e nelle note ridondanti che celebrano un’idea guittesca di civile convivenza.