Adesso che il diavolo è morto si potrà forse avanzare qualche domanda sui vari punti oscuri rimasti sullo sfondo dei suoi efferatissimi delitti. E magari ammettere che tutto chiaro probabilmente non è. Della carriera criminale di Salvatore Riina, detto Totò, nato a Corleone il 16 novembre del 1930 e morto nel reparto carcerario dell’ospedale di Parma, tanto si è detto e molto si è scritto. Meno, molto meno, si è parlato dei misteri che questo viddano sanguinario e semianalfabeta – “Sono un quinta elementare”, amava ripetere – si è portato nella tomba dopo avere terrificato un intero Paese all’apice di un’escalation di violenza senza precedenti.
Di soprannomi ne ha collezionati diversi. Da ‘u curtu che gli venne dato alle origini per la sua bassa statura – in Sicilia la chiamano “ingiuria” – fino alla corona di capo dei capi di Cosa nostra, passando per quelli meritati sulle pagine di cronaca giudiziaria: la belva, l’animale, il demonio. D’altronde basta soltanto provare a ricordare gli omicidi e le stragi di cui si è reso colpevole per dire che sì, non c’è dubbio che Riina qualcosa di vicino al demoniaco lo è stato davvero. Contarli quei morti ammazzati è invece impossibile: pare siano più di duecento, di sicuro gli sono costati 26 ergastoli. Lui, da parte sua, non ha mai ceduto di un millimetro, non ha mai mostrato alcun cenno di cedimento, seppur minimo. “Io sono il parafulmine dello Stato italiano”, ha detto praticamente ogni volta che ha aperto bocca. Ma parafulmine di che? E di chi?
Le origini di Totò ‘u curtu – Di sicuro, su Riina, c’è solo quello che è stato documentato. Che non è poco. Nato poverissimo in una famiglia di contadini, il padre rimane ucciso mentre cercava di estrarre polvere da sparo da una bomba americana inesplosa. Il giovane Totuccio – tarchiato, ben piazzato e svelto di pensiero – comincia a darsi da fare: piccoli furti, abigeato, crimini di strada. Il primo omicidio lo compie poco più che maggiorenne: ammazza un coetaneo in una rissa, conosce per la prima volta il carcere. Poi esce e si lega a Luciano Liggio, rampante boss di poco più anziano che lo combina uomo d’onore, e al giovane Bernardo Provenzano, con il quale intratterrà per tutta la vita un rapporto in chiaroscuro. È la triade che scatena la faida di Corleone: ammazzano il capomafia locale, Michele Navarra, medico condotto del paese, ne prendono il posto e cominciano la scalata alla città. I primi sequestri di persona, la prima guerra di mafia, i processi finiti con le assoluzioni a Bari e a Catanzaro segnano gli anni dello sbarco a Palermo dei “peri incritati”: letteralmente significa “piedi sporchi di fango” ed è il modo offensivo con cui venivano chiamati i rozzi corleonesi che venivano dalla campagna dalla borghesia mafiosa del capoluogo. Quella classe dirigente di Cosa nostra che manteneva ordine ed equilibrio, che frequentava i salotti buoni della città, che era diventata miliardaria con il traffico di stupefacenti e che Riina qualche anno dopo sterminerà in una mattanza da numeri di guerra civile: mille morti ammazzati, quasi tutti da una parte, quella di Stefano Bontade e degli Inzerillo. Più che una guerra civile, quindi, una pulizia etnica: una mattanza, appunto.
L’escalation del capo dei capi – Ecco, è forse da quel momento che ‘u curtu comincia a far parlare di sé. E soprattutto comincia a sollecitare qualche interrogativo: fa tutto da solo? Le dritte, le soffiate, quel complesso gioco di alleanze e tradimenti che lo proietta al vertice di Cosa nostra è tutto opera sua? E perché dopo aver preso il potere comincia ad eliminare ad uno a uno tutti o quasi i componenti di quel gruppo di fuoco che gli ha liberato a colpi di kalashnikov la strada verso la scalata al potere? Mafiosi di rango, in certi casi titolari di maturità classiche ottenute con il massimo dei voti – è il caso di Pino Greco detto Scarpuzzedda – sono diventati all’improvviso killer addestratissimi e infallibili, capaci di neutralizzare chiunque usando agevolmente armi automatiche da guerra come neanche i miliziani in Libano. Sono gli anni dell’autobomba che uccide il giudice Rocco Chinnici sotto casa, degli omicidi quotidiani, dei giornali che titolano: Palermo come Beirut. Poi, a guerra di mafia finita, molti di quei sicari infallibili verranno eliminati per motivi oscuri ma sempre per ordine del capo. Che è già diventato il capo dei capi, ricco sfondato dopo aver ereditato i contatti dai mafiosi palermitani perdenti. “A noialtri Berlusconi ci dava 250 milioni ogni sei mesi”, dirà intercettato in carcere nel 2013 mentre parla con Alberto Lorusso, la sua “dama di compagnia”. Dove sono finiti quei soldi? E tutti gli altri, accumulati in quasi mezzo secolo di traffici? Sono stati tutti confiscati? Di sicuro non sono negli ultimi conti sequestrati ai Riina: di recente gli investigatori li hanno trovato vuoti, mentre Ninetta Bagarella – la moglie del boss – dimostrava fino a poco tempo fa di avere a disposizione ampia liquidità.
La firma della Falange – I veri misteri che il capo dei capi si è portato nella tomba però sono altri. E appartengono quasi tutti a quegli anni che segnano un cambiamento epocale: la caduta dell’Unione Sovietica, quella del Muro di Berlino, la nuove strategie del Paesi Nato. Parallela cambia anche la storia di Cosa nostra: le sentenze del Maxi processo stanno per diventare definitive. Vuol dire che per la prima volta i boss vedranno comparire le parole “fine pena mai” nei loro fascicoli giudiziari. Tutti, compreso Riina che al Maxi ha avuto il suo primo ergastolo. Ed è lì che ‘u curtu lancia la sua offensiva. “Ora bisogna pulirsi i piedi”, dirà ai suoi riuniti in un casolare nei pressi di Enna nell’inverno del 1991. Tradotto vuol dire che bisogna eliminare i politici che non hanno mantenuto i patti: da Salvo Lima in poi. Sono le stesse riunioni in cui Riina – come racconta il pentito catanese Filippo Malvagna – ordina a Cosa nostra di rivendicare gli omicidi utilizzando una sigla fino a quel momento poco nota: Falange Armata. È una firma che rievoca un qualche gruppo terroristico molto in voga fino agli anni ’80. In realtà non esiste: aveva fatto il suo esordio qualche mese prima rivendicando l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile, che in realtà era stato ordinato dal boss della ‘ndrangheta Domenica Papalia. Poi la Falange Armata mette la firma su un paio di assalti della banda della Uno Bianca. Quindi, dopo l’ordine di Riina, compare in Sicilia. Ma al padrino di Corleone, chi suggerisce l’utilizzo di utilizzare quella sigla che oggi gli investigatori ipotizzano essere stata creata da ambienti dei servizi? Perché Riina ordina i suoi di firmare gli omicidi con quel nome, già utilizzato dalla ‘ndrangheta e in seguito in una miriade di occasioni mai chiarite? Il boss corleonese ha suggeritori comuni ai calabresi? E se sì quali? È un fatto che l’ultima traccia della Falange Armata sia arrivata dopo vent’anni di silenzio: “Riina chiudi la bocca”, c’è scritto in una lettera inviata nel dicembre del 2013 al carcere milanese di Opera, dove il padrino trascorre le sue ore d’aria chiacchierando con Lorusso. Quei colloqui sono intercettati dalla Dia di Palermo ma ancora nessuno lo sa.
Falcone e Borsellino: l’attacco allo Stato – Nessuno, poi, conosce il motivo che spinse Cosa nostra ad assassinare Giovanni Falcone in quel modo rocambolesco il 23 maggio del 1992. Già dal febbraio di quell’anno – lo raccontano diversi pentiti – un gruppo di killer mafiosi era stato spedito a Roma per ucciderlo. Un’operazione semplice, che si poteva compiere con un colpo di pistola in strada e che salta una prima volta solo per un banale scambio di nome del ristorante in cui Falcone era solito andare a mangiare. Non ci sarà una seconda occasione: il commando di sicari verrà richiamato a Palermo da Riina, l’omicidio del magistrato palermitano si terrà in Sicilia e avrà tutte le caratteristiche di un’esecuzione dimostrativa. È la prima strage, la più grossa. E infatti i mafiosi la definiranno con un neologismo: l’Attentatuni. “La genesi di tutto è quando si decise di non uccidere più Falcone a Roma con quelle modalità e si torna in Sicilia: lì cambia tutto e poi non c’è solo mafia”, racconta Gaspare Spatuzza, il pentito che è il teste fondamentale del secondo processo sulla strage di Capaci ed ha ricostruito la fase esecutiva di quella di via d’Amelio. Già, via d’Amelio, l’eccidio più misterioso del dopoguerra, che a un quarto di secolo di distanza contiene più punti oscuri di quanti siano gli elementi noti. Il primo è forse il fondamentale: perché Cosa nostra decide di uccidere Paolo Borsellino solo 56 giorni dopo l’Attentatuni di Capaci? Riina era davvero in pieno delirio d’onnipotenza da non capire che quel botto avrebbe sollecitato una reazione dello Stato? E perché viene assassinato Borsellino? Perché con tutta quella fretta? Si era davvero messo in mezzo alla Trattativa? O stava seguendo altre indagini?
Il fattore B – “Forse Riina doveva mantenere impegni, come se qualcuno fuori da Cosa nostra glielo avesse chiesto”, ha raccontato Salvatore Cancemi, il pentito che per primo ha parlato di legami tra il capo dei capi e Silvio Berlusconi.“Riina – ha spiegato – diceva che si stava giocando i denti per il bene di Cosa nostra e che aveva Berlusconi e Dell’Utri nelle mani: con loro possiamo dormire sonni tranquilli”. Dopo l’omicidio di Falcone e in piena Tangentopoli è chiaro come il sistema politico italiano stia crollando. Il cratere di Capaci non spazza via soltanto il magistrato palermitano e la moglie, ma anche – probabilmente – un pezzo bello grosso di Prima Repubblica. Riina lo intuisce, capisce che in uno Stato debole la sua escalation di violenza può indirizzare in qualche modo il corso delle cose. Può portare Cosa nostra a stringere nuovi patti e diventare più forte. Solo che tra il maggio e il luglio del 1992 non si vede all’orizzonte ancora nessun elemento nuovo sul palcoscenico politico: Forza Italia nascerà solo l’anno dopo, anche se già nella primavera del 1992 Marcello Dell’Utri inizia a lavorare al nuovo partito. Eppure secondo Cancemi, Riina è già entusiasta sia di Dell’Utri che di Berlusconi. “Con loro possiamo dormire sogni tranquilli”, avrebbe detto. Anni dopo cambierà idea. “Noi su Berlusconi abbiamo un diritto: quando siamo fuori lo ammazziamo. Non l’ammazziamo, però. Perché noi stessi non abbiamo il coraggio di prenderci il diritto”, dirà lo stesso boss corleonese in un altro dei colloqui intercettati con Lorusso nel 2013. A che tipo di diritto si riferisce?
Il covo e l’archivio – Riina non è intercettato, ma parla volontariamente con l’agente di polizia penitenziaria che l’accompagna, invece, quando rievoca il suo arresto. “A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Ciancimino e non come dicono i carabinieri”, dirà il 21 maggio del 2013 durante una pausa del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Una frase che confermerebbe la tesi dell’accusa: l’arresto del capo dei capi è uno degli oggetti nel dialogo tra le Istituzioni e i nuovi interlocutori mafiosi, guidati – appunto – da Provenzano. Diverso il parere di Mario Mori, l’ex generale del Ros (imputato al processo Trattativa) che insieme al capitano Ultimo mise le manette Riina il 15 gennaio del 1993: quell’arresto fu possibile solo grazie alle indicazioni del pentito Balduccio Di Maggio. Di sicuro c’è soltanto che dopo l’arresto del capo dei capi, il suo covo venne lasciato incustodito dai militari: per quella vicenda Mori e Ultimo vennero assolti. Quella mancata perquisizione non era reato. Due settimane dopo, però, quando gli investigatori entrano nella villetta dove abitava la famiglia Riina, dentro non c’è più nulla: qualcuno si è persino preso la briga di ritinteggiare le pareti. Più di una fonte, invece, ha sostenuto negli anni che dentro a quell’abitazione Riina custodisse il suo archivio: il covo viene ripulito proprio per fare sparire quei documenti. E per questo motivo non viene perquisito subito? O quel ritardo nell’entrare in via Bernini fu solo un errore di valutazione da parte dei carabinieri e dei magistrati?
Irredimibile fino alla fine – A metterle in fila, insomma, le domande che il boss sanguinario ha lasciato inevase sono parecchie. D’altra parte persino nella sua ultima istantanea Riina è immortalato come il più irriducibile de boss stragisti. “Io non mi pento, possono farmi fare tremila anni”, diceva il padrino alla moglie durante un colloquio in carcere del febbraio scorso, mentre il suo avvocato tentava di dimostrare al mondo come il suo cliente fosse ormai solo un vecchio in fin di vita. Sono i mesi in cui la Cassazione emette una delle sentenze più discusse degli ultimi tempi: quella che riconosce il diritto a una morte dignitosa anche al più efferato degli stragisti. Che, però, non riuscirà mai a ottenere gli arresti domiciliari per motivi di salute, istanza respinta dal tribunale di sicurezza di Bologna proprio alla luce di quella rivendicazione intercettata con la moglie. Sono gli ultimi scampoli della vita pubblica del capo dei capi, cominciata il primo marzo del 1993.
Domande senza risposta – Quel giorno ‘u curtu compare nell’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo per essere giudicato al processo sui cosiddetti delitti politici: quelli di Michele Reina, Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Rosario Di Salvo. È stato arrestato soltanto quaranta giorni prima, e l’Italia è curiosa di sentire che voce ha l’assassino di Falcone e Borsellino. Quello che va in scena è un vero e proprio show: la mafia esiste, c’è, ed ha la faccia di quel piccolo signore di mezza età, remissivo nella forma, come appare nella foto scattata subito dopo l’arresto. Ma minaccioso persino quando respira, nonostante sia ammanettato e circondato da carabinieri. Gli chiedono: Lei ha mai sentito parlare dell’associazione criminale denominata Cosa nostra? “No, mai. Io sono agricoltore”. E Bernardo Provenzano, lo conosce? “È un mio compaesano ma non lo conosco, non l’ho mai incontrato”. E Pino Marchese, suo ex fedelissimo che in quell’occasione è in aula per confrontarsi con lui? “Mai visto”. E il matrimonio di Leoluca Bagarella, suo fidato cognato? “Non c’ero, mai andato”. Ma come ha fatto a rimanere latitante per tutto questo tempo? “A me non mi cercava nessuno”. Uno spettacolo utilissimo a psichiatri e criminologi che raggiunge il suo apice quando ‘u curtu litiga con il pentito Gaspare Mutolo al culmine di uno dei confronti più famosi della storia della piovra, dopo quello tra Tommaso Buscetta e Pippo Calò ai tempi del Maxi. Con Mutolo, che era stato il suo “ragazzo spazzola” nel carcere Ucciardone, Riina è adirato. Gli offende la madre, gli dà del pazzo, alla fine gli dice: “Tu fai la fine di Matteo Lo Vecchio”. E chi è Matteo Lo Vecchio? È un personaggio di un vecchio romanzo della tradizione siciliana – I Beati Paoli di Luigi Natoli – che essendo “sbirro” finisce con l’essere ammazzato. I giudici lo bloccano subito: Lei sta minacciando il testimone augurandogli la morte. “Ma quando mai”, risponde tranquillo Riina. “Non ho mai detto niente del genere”. “Guardi – gli fa notare il giudice a latere – che quel libro lo conosciamo anche noi. Sappiamo che alla fine Lo Vecchio muore ammazzato. “Signor giudice, io quel libro non l’ho letto tutto: l’ho letto a pezzi”, risponde ‘u curtu pronto. Ineffabile, irredimibile e con un senso d’impunità che si porterà dietro anche nei 24 anni successivi trascorsi al 41 bis. Consapevole di essersi portato nella tomba i misteri più torbidi del Paese. Chissà se riposeranno in pace.
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