Annalisa Casati, 28 anni, vive a Göteborg. Ha conosciuto la Svezia durante l'Erasmus mentre frequentava il Politecnico e ha deciso di ripartire nonostante lavorasse in uno studio nel Varesotto. "Mi rendevo conto che con lo stipendio e il supporto sociale italiano avrei giusto potuto sopravvivere più che vivere. E qui avere figli non è un impiccio"
“La nostra azienda è un posto bellissimo per avere dei bambini, noi siamo molto flessibili con gli orari”. Queste le parole del futuro capo di Annalisa Casati mentre le ha messo davanti un contratto di assunzione. “Mi è venuto da sorridere e gli ho detto di essere solo in sovrappeso. Però mi ha fatto sentire molto rilassata all’idea di potere pensare a mettere su famiglia senza l’ansia che un figlio possa essere il motivo per cui, dopo sei mesi, il mio contratto non diventi indeterminato”. Progettare un bambino senza i posticipi legati alla carriera, infatti, è stato tra i motivi che ha spinto la 28enne a scegliere di lasciare l’Italia. L’altro motivo è stata l’invidia, quell’invidia positiva che ti porta a credere di meritarti condizioni di vita migliori.
Perché Annalisa, cresciuta in provincia di Varese, un lavoro lo aveva in Italia, e si trattava di un’invidiabile occupazione nel suo ambito di studi come designer del prodotto industriale. “Se avessi voluto, mi avrebbero anche assunta a tempo indeterminato”. Quindi cosa l’ha spinta ad andarsene da un possibile posto fisso? Galeotto fu un Erasmus in Finlandia proprio ai tempi degli studi al Politecnico di Milano. “Durante quei mesi ho notato con invidia la fiducia che in nord Europa viene riposta nei giovani, tra università gratuita e prestiti statali concessi agli studenti”, che in questo modo possono permettersi di fare vacanze, vivere lontano da casa e considerare una cena al ristorante non un lusso a cui rinunciare. “Non dipendendo dai genitori e avendo un aiuto statale, gli studenti svedesi credo che non si rendano conto della fortuna che hanno”.
Un approccio diverso che l’ha portata a sentire tutta la diversità della sua condizione di espatriata italiana. Perché se lei all’idea del finire l’università veniva presa “dall’ansia del rimanere disoccupata e di dover tornare a casa a vivere con mamma”, i suoi colleghi svedesi erano sempre piuttosto tranquilli. “Un lavoro si trova”, dicevano alla designer, oppure “continuerò a studiare per avere i sussidi finché non avrò un lavoro”. Cosa non riusciva a dimenticare del nord Europa una volta tornata in provincia di Varese? “La spensieratezza con cui mi sembrava la gente vivesse le sue vite, fidandosi delle istituzioni e con un equilibrio lavoro/vita privata non da poco”.
Rifletteva su questo la giovane quattro anni fa, mentre – di ritorno dal suo Erasmus e con la laurea in un cassetto – lavorava come junior designer in uno studio nel Varesotto. Accanto a lei, amici grafici “che trascorrevano in ufficio fino a dieci ore al giorno” oppure contratti a partita Iva “che sono quelli che fanno più rabbia, perché significano vivere nell’incertezza senza potersi permettere neppure di stare male”. E fu così che Annalisa, immersa nel mondo del lavoro italiano, ha iniziato ad essere spaventata “dalle prospettiva che i suoi figli avrebbero potuto avere” e dal peso di diventare, un giorno, madre. “Pensavo al mondo del lavoro del nord Europa che avevo conosciuto durante l’Erasmus, e mi rendevo conto che con lo stipendio e il supporto sociale italiano avrei giusto potuto sopravvivere più che vivere”.
Un momento di crisi che la spinge a scommettere. Quindi va in Svezia per frequentare un master in design dell’interazione sperando che si aprano le porte nel mondo del lavoro. Un primo passo che l’ha portata a vivere a Göteborg da ormai quattro anni lavorando come user experience designer (ovvero progettista/designer dell’esperienza utente) e avendo in mano, dopo solo sei mesi, un contratto a tempo indeterminato. Un lavoro che consiste nel ridurre lo sforzo cognitivo nell’utilizzo di un programma necessario alle università per gestire orari e risorse. Ma non si tratta solo di essere occupati nell’ambito in cui si ha studiato o di uno stipendio che ogni anno viene ricalcolato e ricontrattato in base agli obiettivi raggiunti. Era una migliore qualità della vita quella che Annalisa cercava partendo per il nord Europa. “Lo stile di vita rilassato svedese mi ha aiutata a dare il più possibile durante le ore lavorative, e poi a staccare completamente una volta uscita dall’ufficio”.
Ora Annalisa ha un compagno svedese da anni, e si rende conto di cosa significhi vivere in una realtà in cui i giorni di paternità e maternità in totale sono 480 all’80% dello stipendio, e possono essere presi fino agli 8 anni del bambino. “Il mio ragazzo me lo dice sempre che quando faremo dei figli, vorrà almeno il 50% della paternità”. Tanto che mentre la 28enne italiana si racconta al telefono, davanti a lei si trova un gruppo di quelli che sono chiamati “latte pappa”, ovvero un gruppo di amici che si ritrovano coi passeggini a farsi un cappuccino o un caffè. “Qui è normale vedere mezzo ufficio svuotarsi alle 15.30 perché i genitori devono andare a prendere i bambini all’asilo”. E mentre racconta delle abitudini in Svezia, si rende conto di quanto questo stesso comportamento in Italia sarebbe visto come puro “fancazzismo” che avrebbe delle serie conseguenze sulla carriera. “La verità è che i bambini sono sacri per gli svedesi, ed essere un genitore è visto come una gran bella cosa più che un impiccio”.