di Francesco Desogus 

Verrebbe da dire batti il chiodo finché è caldo, perché sulla scia del referendum indipendentista catalano e dei due referendum veneto e lombardo in versione autonomista, anche in Sardegna ora si è messa in moto la macchina raccolta-firme per un referendum. Niente a che vedere con i seguaci del fuggitivo Rajyon, perché il Pil della terra dei nuraghi, anche nella più rosea delle ipotesi, non consentirebbe l’autosufficienza economica. Il cordone ombelicale con mamma Continente non si tocca.

Neppure fans di Roberto Maroni e Luca Zaia, perché è già regione a statuto speciale. Invece oggi si rivendica lo status di “insularità”, che si vorrebbe inserito nella Costituzione, partendo dall’articolo 158 del Trattato sull’Unione europea e giungere all’articolo 12 dello Statuto sardo, ovvero l’attuazione di una fiscalità di vantaggio e di compensazione a favore delle imprese e dei residenti, penalizzati dal mare per i trasporti merci e persone.  Significherebbe anche un recupero degli aiuti comunitari che si sono ridotti da quanto la Sardegna è fuori dal club delle regioni “Obiettivo 1”, quelle più svantaggiate.

L’appello plebiscitario, se dovesse compiersi, avrà un esito scontato. Ma è davvero necessario? Si tratta di un referendum regionale consultivo, che non comporterà alcun automatismo da parte dello Stato che, volendo, potrebbe risolvere domani stesso, almeno in parte. Infatti, il tema insularità non è disgiunto da un’altra battaglia quella sull’attuazione delle zone franche. Una legge c’è già (Dlgs. n.75/1998) che riconosce quattro “punti franchi”  ma è un atto monco, inapplicato e per ora circoscritto a un’area di appena sei ettari nel porto canale di Cagliari. Nel frattempo, diversi  comuni stanno deliberando simbolicamente il proprio territorio zona franca, perché in tanti  sono solleticati dell’idea di un intera Sardegna come una enorme Livigno di 24mila chilometri quadrati.

Ad ogni modo il sardo è avvezzo a questo tipo di lotte. Tanto chiasso e, se rispondono dall’altra parte del Tirreno, sono solo briciole. In fondo non servono molte adesioni. Bastano solo diecimila firme per un referendum regionale, facilmente superate. Tuttavia restano delle perplessità. Innanzitutto la tempistica. Il rinnovo del Parlamento è alle porte e tra circa un anno anche del consiglio regionale. I principali esponenti di tutti i partiti, da destra alla sinistra inclusi i movimenti indipendentisti, tranne il Movimento 5 Stelle più pragmatico,  fanno a gara per mostrare in pubblico la loro adesione.

E’ una vetrina strategica perché queste battaglie risvegliano il carattere identitario e quel desiderio sovranista, riassumibili nel concetto di “sardità”. Così per questa volta indossano il vestito del bravo isolano.  Da vedere cosa faranno questi “amanti per una notte” in prossimità delle urne nel rivendicare la paternità del tutto.
Il secondo motivo è che sono gli stessi partiti, comunque rinominati e frammentati, che in tutti questi decenni per incapacità, negligenza e servilismo verso le segreterie romane non sono riusciti alla svolta definitiva per la Sardegna concessa dallo Statuto Speciale, come invece è in buona parte riuscita la cugina Sicilia.

E così ritrovi il governatore di turno in pellegrinaggio a Palazzo Chigi per elemosinare qualcosa. Qualche giorno fa è toccato a Francesco Pigliaru, sbandierando un timido “Ora basta!”. Nessun tavolo pieno di carte e tabelle, governo da una parte e giunta sarda dall’altra, a contestare gli accantonamenti non dovuti. Solo un incontro nel salottino buono di Palazzo Chigi, che suggerisce  un semplice appunto nell’agenda del premier: convenevoli di rito, sorrisi e la solita sfilza di promesse e riparliamone tra qualche settimana. Sono entrambi renziani. Il mesto rientro del governatore e un nuovo sconsolato “Ora basta”! Vabbè.

La consultazione referendaria costerà ai sardi diverse centinaia di migliaia di euro, decisamente troppi per una regione in ginocchio.

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