Da una parte ci sono i misteri rimasti irrisolti. Quei pezzi di puzzle mai andati a posto e che dopo un quarto di secolo continuano ad essere al centro di complesse indagini. Dall’altra ci sono gli interrogativi sul futuro: succederà davvero qualcosa dentro Cosa nostra dopo la morte di Salvatore Riina? La Cupola tornerà a riunirsi per individuare il nuovo capo dei capi? O – come ipotizza qualcuno – la piovra avrebbe già messo in moto la macchina della riorganizzazione? Domande sulle quali lavorano in queste ore gli investigatori attivi sul territorio, dalla questura alla procura di Palermo. Ma che si sono posti anche quei magistrati con conoscono bene le dinamiche mafiose. Le cui opinioni sembrano convergere su due punti. Il primo: fino all’esalazione del suo ultimo respiro era Riina il capo assoluto della mafia. Il secondo: non è Matteo Messina Denaro il suo successore. Almeno non ancora.
Riina capo fino all’ultimo – “Le regole di Cosa nostra non prevedono che un capo smetta di essere capo solo perché è finito in carcere”, dice al fattoquotidiano.it il questore di Palermo, Renato Cortese, l’uomo che l’11 aprile del 2006 mise le manette ai polsi di un altro superboss, Bernardo Provenzano. “Anche se Riina è al 41 bis dal 15 gennaio del 1993 – aggiunge – negli anni successivi la mafia ha avuto soltanto reggenti. Un po’ come avviene nei mandamenti, dove il vertice è sempre in un certo senso coperto: lo stesso Provenzano era una sorta di reggente del bastone del potere”. “Fino all’ultimo Riina era il capo riconosciuto di Cosa nostra ma dal 1993 non era operativo. A questo è servito il 41 bis: a impedirgli di continuare a esercitare il suo potere”, annota Franco Roberti, appena andato in pensione da procuratore nazionale Antimafia.
“Se non muoiono i vecchi non c’è futuro” – Per provare a ragionare sul futuro della piovra, gli inquirenti hanno sul tavolo una serie di relazioni e intercettazioni più o meno recenti. Come quella di Santi Pullarà, figlio di Ignazio, storico reggente del clan di Santa Maria di Gesù, il boss che negli anni ’80 – secondo il pentito Giovanni Brusca – estorceva 600 milioni di lire all’anno di pizzo a Silvio Berlusconi. “Se non muoiono tutti e due, luce non ne vede nessuno: è vero zio Mario?”, diceva nel 2015 Pullarà junior riferendosi a Riina e Provenzano e parlando con un decano della storia di Cosa nostra: Mario Marchese, considerato l’ultimo capomafia di Villagrazia, prima uomo di fiducia di Stefano Bontade e poi traditore del principe di Villagrazia, assassinato nel 1981 durante la “mattanza“, la seconda guerra di mafia scatenata dai corleonesi. “Lo so, se non muoiono tutti e due non se ne vede lustro (luce ndr) e niente li frega”, rispondeva l’anziano boss. “Quell’intercettazione – dice un investigatore – è la certificazione che dal post stragi Cosa nostra ha un vertice bloccato. E che la situazione non sarebbe mai cambiata senza morte dei due simboli del clan dei corleonesi”. Che adesso, per l’appunto, sono entrambi morti.
Grasso: “Ora una fase di transizione” – Se da un lato, quindi, Cosa nostra negli ultimi 25 anni si è adattata ad avere un capo intoccabile, ma in carcere, cosa può succedere ora che quel posto di vertice è rimasto vacante? Verrà subito occupato da qualcun’altro? E se sì, in che modo? “Nessuno può dirlo: Cosa nostra è un’organizzazione segreta quindi non possiamo mai essere sicuri di sapere tutto quello che avviene al suo interno”, spiega il questore. “Riina è stato a capo dell’organismo di vertice di Cosa nostra, la cosiddetta Commissione, così come prevedono le ferree regole dell’organizzazione. Ora si aprirà una fase di transizione dagli esiti per nulla scontati”, suggerisce il presidente del Senato, Pietro Grasso, in passato alla guida della Direzione nazionale antimafia ma anche della procura di Palermo, e giudice a latere del primo Maxiprocesso. Il cenno di Grasso alla Commissione non è casuale: tecnicamente ad eleggere l’erede di Riina dovrebbe essere la Commissione provinciale, cioè la Cupola: le antiche regole di Cosa nostra prevedono una vera e propria votazione tra i rappresentanti delle varie famiglie. Un vecchio metodo spazzato via dall’escalation di Riina – l’uomo che fece di Cosa nostra una cosa sua – ma che ora potrebbe anche tornare in voga. Solo che la Commissione non si riunisce più proprio dall’arresto del capo dei capi. Un tentativo di riorganizzazione, per la verità, venne fatto nel 2008: a presiedere la commissione doveva essere Benendetto Capizzi, boss di Villagrazia ma l’operazione venne neutralizzata da un blitz dei carabinieri. Poi nel 2011, un’altra iniziativa col summit di Villa Pensabene organizzato dal boss di San Lorenzo, Giulio Caporrimo: anche lì arrivarono gli investigatori ad azzerare i redivivi esponenti di Cosa nostra. Quelle convocazioni con il capo dei capi ancora in vita – peraltro tutte fallite – sarebbero stato un segnale di golpe interno alla piovra. Adesso, però, Riina non c’è più: è per questo che in molti si chiedono quanto impiegarà il ventre di Cosa nostra a darsi nuovi vertici.
Prove tecniche di Commissione – Il questore Cortese valuta ogni ipotesi .”In realtà – dice – la commissione potrebbe essere già stata riunita indicando un nuovo capo in attesa della morte di Riina: non possiamo ancora saperlo. Ma non dobbiamo dimenticare che Cosa nostra non è solo quella palermitana ma anche quella delle altre province. Si è deciso chi deve fare parte della nuova Commissione? E questa nuova Cupola deciderà in maniera concorde il nuovo capo? Lo voterà come si faceva prima dell’avvento dei corleonesi o lo nominerà all’unanimità dopo una lotta di potere? E poi chi è che avrà diritto di voto: tutti i boss liberi? Per questo motivo la successione di Riina potrebbe avvenire in modo indolore. Ma anche in modo turbolento come ci possono suggerire i recenti fatti di cronaca”. Il riferimento del questore è l’omicidio del boss Giuseppe Dainotti, ex braccio destro di Salvatore Cancemi, assassinato a colpi di pistola alcuni mesi dopo la scarcerazione e alla vigilia del venticinquesimo anniversario della strage di Capaci.
La “camorristizzazione” di Cosa nostra: una mafia acefala?- “Cosa nostra ha attraversato diversi momenti negli ultimi anni. Se dopo le stragi c’è stata una fase detta dell’inabbissamento, negli ultimi abbiamo registrato un momento di evoluzione soprattutto finanziaria“, annota invece l’ex procuratore antimafia Roberti. In che senso evoluzione finanziaria? Da anni ormai le indagini hanno mostrato che i traffici odierni di Cosa nostra sono molto ridimensionati rispetto a quelli del passato: i clan sono tornati al vecchio business dello spaccio di stupefacenti mentre la classe militare mafiosa è ridotta quasi ai minimi termini. “A livello finanziario c’è un ritorno di grossi capitali”, avverte però sempre l’ex numero uno di via Giulia. È possibile, quindi, che i mafiosi evitino di mettere subito in moto la macchina della successione di Riina per proteggere i loro affari dai riflettori degli investigatori? “Non posso escluderlo – dice Roberti – È possibile che la nomina del nuovo capo dei capi venga anche messa da parte per un periodo”. In questo senso, una parte della procura di Palermo ha coniato un termine per definire la stato della nuova mafia: la chiamano “camorristizzazione” di Cosa nostra. “Dieci anni fa – spiega un inquirente che chiede di non essere citato – la morte di Riina e Provenzano avrebbe avuto un impatto diverso perché liberi c’erano personaggi come i Lo Piccolo e Nino Rotolo. Oggi invece abbiamo una Cosa nostra divisa in nuclei che corrispondono a famiglie. Ogni famiglia gestisce i suoi traffici con reggenti e capidecina ma senza una struttura unitaria che comandi su tutte le famiglie. E soprattutto con gli incontri di vertice tendenti allo zero per non rischiare di essere colpiti da operazioni antimafia”.
Teresi: “Cosa nostra si è già mossa” – Non è d’accordo con questa tesi Vittorio Teresi, procuratore aggiunto di Palermo, secondo il quale le manovre per la successione sono già state avviate. “Credo che, per quanto conosco l’organizzazione, avesse già cercato di pensare ad una successione – ha detto il magistrato a Radio 24 – Perché è vero che Riina rappresentava il capo assoluto di Cosa Nostra, però è anche vero che ormai le sue condizioni facevano facilmente prevedere che di lì breve sarebbe scomparso. Sono abbastanza certo che l’organizzazione si sia mossa per prendere le decisioni necessarie: o una gestione collegiale dei vertici o un tentativo di qualcuno di forzare la mano. Nel primo caso avremmo una stagione di politica silente di Cosa nostra, di sommersione come è stata quella inaugurata da Provenzano o uno scontro, che non è mai da augurarsi. Sicuramente una consultazione c’è stata”.
L’erede? Non è Messina Denaro – Ma se una consultazione c’è stata a questo punto chi potrebbe essere l’ipotetico erede di Riina? Forse quel Matteo Messina Denaro, che è l’ultimo degli stragisti ancora in libertà? Gli investigatori non ne sono conviti. “Non c’è traccia investigativa che suggerisca una vera influenza di Messina Denaro fuori dal mandamento di Trapani“, dice Cortese. “Certo è forte di una latitanza lunga 25 anni e dei rapporti storici coi corleonesi: ma queste credenziali come sono spendibili nei confronti del resto dell’organizzazione? La presenza sul territorio è importante“, continua il questore che ricorda poi la recente ondata di scarcerazioni andata in onda in seno a Cosa nostra. Due pezzi da Novanta liberati di recente sono nuovamente finiti in gabbia. Si tratta de boss di Porta Nuova, Tommaso Di Giovanni, e di Giulio Caporrimo, l’ex “confessore” di Massimo Carminati. A piede libero, invece, rimangono personaggi come Giovanni Grizzaffi, figlio di Caterina Riina e nipote di Totò, ma anche il boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, il medico che sostenenva Totò Cuffaro alle elezioni, scarcerato e ora residente a Roma. In giro è tornato ormai da qualche mese anche Gaetano Scotto, indicato dai pentiti come il trait d’union tra Cosa nostra e i servizi segreti negli anni neri delle bombe e coinvolto nelle inchieste sulla strage di via d’Amelio. E proprio a quel periodo si riferisce il pm Teresi quando ipotizza che “la morte di Riina ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molti, dentro e fuori Cosa nostra”. Il riferimento è chiaramente alle inchieste ancora aperte a Caltanissetta, Palermo e Firenze sulle stragi del 1992 e 1993, che vedono indagati anche Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. “Sappiamo – dice Grasso – che le stragi furono il frutto di una strategia che coinvolse altre realtà oltre a Cosa nostra, per questo dico: chi sa parli e collabori con la giustizia”. Questo, però, è un appello che riguarda gli interrogativi passati. Quelli sui misteri irrisolti. Quanto possano incrociare i punti di domanda sul futuro di Cosa nostra non è, al momento, dato sapere.
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