Le tensioni autonomiste, che pulsano maggiormente nelle aree più lontane dagli affari, Italia inclusa, impoveriscono tutti: un recente studio ha stimato in 600 sterline la perdita di potere d’acquisto del cittadino medio britannico a causa del calo della valuta subito dopo il voto sulla Brexit. Nel Regno Unito post giugno 2016 la fuga delle imprese è un fatto ormai assodato, che i catalani stanno iniziando a conoscere: l’instabilità politica della regione iberica non trova ancora soluzione, ma ha già provocato la fuga di oltre 2.000 imprese.
Una dinamica che sta creando enormi difficoltà ai centri economici e sociali di riferimento, visto che la maggior parte delle aziende che hanno lasciato la Catalogna sono pesi massimi dell’economia della regione. Il vicepresidente Oriol Junqueras, quando i trasferimenti avevano toccato quota 1.000, aveva bollato questa cifra come “ridicola rispetto alle oltre 200.000 imprese che conta il Paese”. Tuttavia, a trovare una nuova sede nelle varie Valencia, Alicante, Palma, Saragozza o Madrid sono state aziende e banche dai volumi rilevanti, come La Caixa, Sabadell, Aguas de Barcelona, Allianz, Gas Natural Fenosa, Abertis, Colonial: tutte rappresentano più del 30% del Pil catalano, e nelle nuove comunità verseranno una parte delle imposte oltre a creare nuovi posti di lavoro e favorire l’indotto. Si tratta di società fino a oggi operanti nel centro più attrattivo della regione, ovvero Barcellona. Proprio laddove i risultati del referendum si sono dimostrati più freddi. Nella provincia della capitale si è registrata infatti una prevalenza del sì con l’87,9% su una base di votanti del 41,2 per cento. Partecipazione ancora più bassa nella provincia di Tarragona, ferma al 40,6 per cento. La consultazione ha invece raccolto grande partecipazione nelle province di Girona e Lleida, dove si è recato alle urne rispettivamente il 53,2 e il 52,8 per cento. La stessa dicotomia si era proposta nel referendum consultivo del 2014, quando solo il 27% della delle province di Barcellona e Tarragona aveva sposato l’opzione separatista, a differenza del 43% del resto della Catalogna. Alle elezioni regionali del 2015 nelle due aree costiere i voti a partiti indipendentisti sono stati del 42%, ben il 66% invece nel resto del territorio.
Gli indipendentisti si raccolgono quindi soprattutto nelle aree interne della Catalogna, le meno ricche e urbanizzate. In risposta a questa battaglia, tra il sarcasmo e la realtà, si sono allora imposti all’attenzione dell’opinione pubblica spagnola i sostenitori della cosiddetta Tabarnia, proprio quell’area costiera che coprirebbe le aree metropolitane di Barcellona e Tarragona, con 5,8 milioni di persone, l’80% del Pil catalano, che versa l’87% del totale delle entrate della Generalitat e ne riceve solo il 59 per cento. I promotori rivendicano una Catalogna “cosmopolita, orgogliosamente bilingue, urbanizzata, multiculturale e strettamente connessa con il resto della Spagna e dell’Europa”, lontana da un’altra Catalogna, di minor rilevanza economica e demografica, “più indipendentista, basata su un’economia locale, ossessionata con l’identità e ostile alla lingua castigliana”. L’Unione Europea vale il 65% delle esportazioni della Catalogna e il 70% degli investimenti esteri negli ultimi tre anni secondo Idescat, l’istituto statistico catalano. E l’accesso al mercato unico in caso di un’indipendenza formalizzata non sarebbe automatico, ma dovrebbe passare per l’approvazione di tutti gli Stati membri, compresa la Spagna.
La contrazione degli investimenti esteri è un fenomeno che il Regno Unito post Brexit sta già conoscendo. Secondo Fdi Markets, osservatorio del Financial Times, nei dieci mesi trascorsi tra il referendum e lo scorso aprile sono stati annunciati 728 nuovi progetti esteri in Uk per un valore complessivo di 28 miliardi di dollari, il 34% in valore in meno rispetto agli 862 nuovi progetti per 43 miliardi di dollari registrati nello stesso periodo nell’anno precedente. Un risultato che sarebbe stato ancor peggiore senza l’improvvisa ripresa del settore immobiliare, favorito dal calo della sterlina dopo il voto. Investitori americani, cinesi e anche europei hanno acquistato a forte sconto circa 10 miliardi di dollari di proprietà, due miliardi in più rispetto allo stesso periodo precedente, portando gli investimenti esteri in real estate al 35% del totale in Uk.
Nonostante giganti come Amazon e Ikea abbiano confermato i propri investimenti nell’Isola, sono molte le realtà che stanno operando una transizione verso le aree continentali, a partire dai nodi nevralgici del mondo finanziario e farmaceutico che vedevano Londra sede dell’Agenzia europea del farmaco e dell’Autorità bancaria europea. Sam Woods, direttore generale della Prudential Regulation Authority, autorità della BoE responsabile della supervisione di banche, assicurazioni e società di investimento, ha dichiarato pochi giorni fa alla commissione parlamentare della Camera dei Lord che nel giorno di attivazione della Brexit si perderanno 10.000 posti di lavoro nella City, e nel lungo periodo, in assenza di un accordo con Bruxelles, tale cifra potrebbe realisticamente toccare le 75.000 unità. La European Medicines Agency in un report di pochi mesi fa suggeriva alle società Uk del pharma di trasferire ruoli e funzioni in un Paese Ue in vista dell’ufficializzazione della Brexit, per preservare i propri diritti nel mercato unico. La stessa agenzia è in lista di sbarco e Milano è in prima fila con Amsterdam, Vienna e Copenaghen tra le pretendenti per aggiudicarsi la nuova sede, mentre Barcellona, seppur molto gradita dai funzionari sarebbe stata scartata per l’instabilità.
L’esperienza catalana si dimostra in linea con quanto accaduto nel referendum sulla Brexit, quando il voto londinese si era espresso contro il risultato complessivo. E a soffrire gli effetti dei nuovi confini, secondo un recente studio di alcuni ricercatori della London School of Economics, dal titolo Local economics effects of Brexit, saranno proprio le aree che per la maggior parte avevano preferito il remain, senza evidenziare alcun vantaggio complessivo per il Paese: per lo stesso studio, al netto dell’inflazione, il cittadino medio britannico ha già perso circa 600 sterline in potere di acquisto a causa del crollo della moneta post voto. Il governo, invece, per il momento si rifiuta di rendere pubblici i propri studi gli impatti regionali della Brexit, in quanto dati sensibili nelle sedi di negoziazione.
I referendum consultivi di Lombardia e Veneto non avevano nulla in comune con le espressioni del voto britannico e catalano, tranne la richiesta di una maggiore autonomia dalle istituzioni centrali. Un quesito referendario dai confini vaghi, che comunque, ricalcando i risultati delle altre due consultazioni, ha visto una partecipazione più compatta nelle province interne della Lombardia come Bergamo, Brescia e Lecco dove l’affluenza ha superato il 44%, e decisamente fredda nel motore di tutta la regione, ovvero la città metropolitana di Milano, dove è rimasta inchiodata al 31 per cento. Il Veneto, che presenta un sistema economico e sociale più decentrato rispetto alla Lombardia, senza un centro catalizzatore come Milano e con un benessere diffuso tra le province, ha registrato invece una partecipazione massiva al referendum soprattutto nei piccoli centri, mentre nei comuni con oltre 30.000 abitanti, dove si concentrano gli affari, le tensioni autonomiste non hanno sfondato, raccogliendo un’affluenza inferiore al 50 per cento.