Due anni fa avevo una presentazione al Salone del libro. Nell’attesa feci un giro per le sale e il maggior affollamento lo notai in uno stand dove c’era non so più quale cuoco- pardòn– chef (termine che ne alimenta l’importanza). Gli chef spopolano, specie sulle televisioni, suscitando reazioni negative anche su queste pagine. Uno chef ormai è talmente famoso che gli si affidano le più svariate campagne pubblicitarie, sicuri che la gente lo riconosca e la campagna abbia successo. Lo chef buca lo schermo.
In questi giorni parlavo con un amico che conosce la realtà di uno dei templi proprio della gastronomia italiana. Parlavo di povertà, e lui mi riferiva che la povertà la vede intorno a lui, proprio nell’ambiente di lavoro. La vede nei giovani assunti, tutti rigorosamente precari, che guadagnano 700/800 euro al mese. Con il limite della povertà assoluta in Italia che si attesta sui 983,24 euro in un’area metropolitana del Nord (calcolo Istat 2016). E i numeri del rapporto di Caritas Italia su povertà ed esclusione sociale 2017 testimoniano impietosamente quanto sia oggi diffusa l’indigenza, specie tra i giovani.
E questa domenica si celebra proprio la giornata internazionale della povertà. A me che appunto mi occupo anche di problemi sociali (distruzione dell’ambiente e disparità sociali sono due facce di una stessa ingiustizia), questo procura particolarmente fastidio. Che si celebrino come divinità persone titolari di imprese (quando non di veri e propri imperi economici) che danno da mangiare, anzi, scusatemi, che dispensano esperienze sensoriali, per quella ristrettissima cerchia di persone che in Italia sono sempre più ricche.
Vediamo un po’ il semplice menù degustazione di alcuni chef stellati: Antonino Cannavacciuolo, 120 euro a persona, Carlo Cracco 180 euro a persona (ahimé ha perso una stella Michelin), Massimo Bottura (la cui “Osteria francescana” è tutto meno che un’osteria e di francescano ha solo il nome), 220 euro a persona. Sempre esclusi i vini, ça va sans dire, per restare nel campo dei francesismi.
Ma quello che trovo ancor più fastidioso è che le loro figure entrino di diritto nell’immaginario collettivo come degli esempi da imitare. In una delle interviste che feci agli indigenti di Torino, un ragazzo mi confessò che il suo sogno era di diventare uno chef famoso. Non si sogna più di diventare professore, medico, fisico, giudice, no. Si sogna di deliziare le papille e le pupille di una ristretta élite. Lasciatemelo dire: qualcosa qui non quadra.