L’indagine di Legambiente sulle attività nelle amministrazioni comunali per la riduzione dei problemi legati a frane, inondazioni e allerte simili offre uno spaccato preoccupante nonostante alcuni miglioramenti rispetto al passato. Un dato su tutti: solo il 29% (432 comuni) ha compiuto esercitazioni per testare l’efficienza del sistema locale di protezione civile
Sono 7,5 milioni i cittadini che vivono o lavorano in aree a rischio idrogeologico. È la fotografia di un’Italia sempre più fragile e insicura quella scattata da ‘Ecosistema Rischio 2017’, l’indagine di Legambiente sulle attività nelle amministrazioni comunali per la riduzione del rischio idrogeologico. Lo studio è stato realizzato sulla base delle risposte fornite da 1.462 amministrazioni al questionario inviato ai 7.145 comuni classificati ad elevata pericolosità idrogeologica (oltre l’88% del totale) secondo i dati dell’Ispra. Nel 70% dei comuni intervistati si trovano abitazioni in aree a rischio, nel 27% interi quartieri, nel 15% scuole e ospedali, nel 20% strutture ricettive o commerciali. E, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, la costruzione scellerata non è un fenomeno solo del passato. Basti pensare che nell’ultimo decennio il 9% dei comuni (136) ha edificato in aree a rischio e, di questi, 110 hanno costruito case, quartieri o strutture sensibili e industriali in aree vincolate, nonostante il recepimento del Piani di assetto idrogeologico nella pianificazione urbanistica.
LA CEMENTIFICAZIONE DEI LETTI DEI FIUMI E I SUOI EFFETTI – Il 70% dei comuni intervistati (1.025 amministrazioni) svolge regolarmente un’attività di manutenzione ordinaria delle sponde dei corsi d’acqua e delle opere di difesa idraulica, mentre il 9% ha dichiarato di aver ‘tombato’ tratti di corsi d’acqua sul proprio territorio, con una conseguente urbanizzazione delle aree sovrastanti. Solo il 4%, invece, ha eseguito la delocalizzazione di abitazioni costruite in aree a rischio, mentre appena il 2% quella di fabbricati industriali. “A pagare lo scotto di questa Italia insicura sono gli oltre 7,5 milioni di cittadini esposti quotidianamente al pericolo – calcola Legambiente – che vivono o lavorano in aree potenzialmente pericolose”.
I DANNI PER IL NOSTRO PAESE – Dal 2010 al 2016, stando alle stime del Cnr, le sole inondazioni hanno provocato nella penisola la morte di oltre 145 persone e l’evacuazione di oltre 40mila. Per non parlare dei danni economici causati dal maltempo e che solo nell’ultimo triennio (2013-2016), secondo i dati dell’unità di missione Italiasicura, è di circa 7,6 miliardi di euro. Lo Stato ad oggi ha risposto stanziando circa il 10% di quanto necessario, 738 milioni di euro. “I dati dell’indagine Ecosistema Rischio – spiega Stefano Ciafani, direttore generale di Legambiente – evidenziano la forte discrepanza che ancora esiste tra le evidenze, la conoscenza, i danni, le tragiche conseguenze del rischio idrogeologico nel nostro Paese e la mancanza di un’azione diffusa, concreta ed efficace di prevenzione sul territorio nazionale”. Secondo Legambiente oltre a un adeguato stanziamento di risorse economiche e di fondi anche per i piani di adattamento al clima è necessaria “la diffusione di una cultura della convivenza con il rischio, attraverso piani comunali di emergenza di Protezione Civile adeguati e aggiornati e attività di formazione e informazione per la popolazione sui comportamenti da adottare in caso di allerta, frane e alluvioni”.
IL PARADOSSO DELLE DELOCALIZZAZIONI – Nonostante negli ultimi anni ci siano stati dei segnali positivi legati anche a specifici atti normativi, ad oggi gli interventi di delocalizzazione degli edifici presenti in aree a rischio stentano a ripartire. Il paradosso è che non vengono effettuati neanche quando gli immobili sono abusivi e ci sono fondi a disposizione per farli. Prova ne è il fondo di 10 milioni di euro stanziato dal Ministero dell’Ambiente a fine 2016, destinato ai Comuni che demoliscono gli edifici abusivi presenti nelle aree a rischio, ancora oggi inutilizzato perché sono pervenute solo 17 richieste di abbattimento, non sufficienti per far scattare l’iter.
SI CONTINUA A COSTRUIRE DELLE AREE A RISCHIO – Ecosistema Rischio 2017 rileva che il 65% delle amministrazioni intervistate (952) ha dichiarato che sono state realizzate opere per la mitigazione del rischio nel proprio territorio. In 455 comuni sono stati consolidati i versanti (48% dei casi), in 430 sono state costruite nuove arginature (45%), e in 383 comuni sono stati eseguiti altri interventi, come la risagomatura dell’alveo (40%). Nel 78% dei casi le perimetrazioni definite dai Piani di Assetto Idrogeologico (PAI) sono state integrate ai piani urbanistici, anche se nel 9% delle amministrazioni si è continuato a costruire nelle aree a rischio anche nell’ultimo decennio.
LA PREVENZIONE – Sul fronte dell’attività di prevenzione, l’82% delle amministrazioni si è dotato di un piano di emergenza comunale di Protezione Civile da mettere in atto in caso di frana o alluvione. Solo il 55% di questi (656 su 1192), però, ha dichiarato di aver aggiornato il proprio piano d’emergenza negli ultimi due anni. Nel 43% dei comuni che hanno partecipato all’indagine, sono presenti e attivi sistemi di monitoraggio finalizzati all’allerta in caso di pericolo, mentre il 68% dei comuni intervistati riferisce di aver recepito il sistema di allerta regionale. Meno incisive le attività d’informazione rivolte ai cittadini: il 33% del campione ha realizzato attività di informazione, mentre solo il 29% (432 comuni) ha compiuto esercitazioni per testare l’efficienza del sistema locale di protezione civile. “Una percentuale particolarmente bassa – spiega Legambiente – visto che i piani d’emergenza, per essere realmente efficaci, devono per prima cosa essere conosciuti dalla popolazione”.