Davanti alla Corte d’appello di Brescia si sono presentati Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati per la strage di Erba del dicembre 2006. Entrambi debbono scontare l’ergastolo; entrambi si proclamano innocenti e, dopo tanti anni, nessuno è più certo della loro colpevolezza. Quella di Erba è una vicenda incredibile, forse la più assurda della storia giudiziaria italiana. Indubbiamente quella con più “dubbi e aporie”, come ha sancito la Cassazione allorquando ha deciso di dire la parola “fine”, dopo tre gradi di giudizio, a quel tormento giudiziario. Dopo quella “fine”, oggi, c’è forse una ripartenza; per questa giornata i difensori di Rosa e Olindo lavorano dal giorno dopo la condanna definitiva.

Anche Azouz Marzouk, che in quella strage ha perso il figlio, la moglie e la suocera, dubita della loro responsabilità e al fine di comprendere se quei “dubbi e aporie” di cui ha parlato la Cassazione sono veramente dei “punti di domanda” su quella tragedia, mi ha nominato come suo difensore per questa fase processuale. Era tutto incerto a Brescia. Infatti, la storia giudiziaria italiana, non ha mai visto una procedura simile: una Corte che, in una sorta di funzione di garanzia, si riunisce per raccogliere delle prove scientifiche richieste dalla difesa dei condannati ma negate dagli uffici giudiziari che detengono i reperti, creando quindi un ostacolo al diritto di difesa e di chiedere la revisione. Le perizie richieste attengono a una serie di reperti mai analizzati in precedenza e rinvenuti sul luogo del delitto, oltre a una serie di altre tracce che, oggi, con le nuove tecniche di analisi, potrebbero portare a risultati scientifici utili.

Il fine è quello di scoprire se, sul luogo di quella mattanza, vi fossero dei protagonisti diversi dai due condannati, Rosa e Olindo. Tutto questo è tanto più decisivo se si pensa che, ove è avvenuto il pluriomicidio, non è stata trovata nessuna traccia dei condannati e, dopo analisi attente ed approfondite del Reparto investigazioni scientifiche (Ris) di Parma, neppure nell’abitazione della coppia e persino negli scarichi del loro appartamento, sono state rinvenute tracce del crimine. Due fantasmi che uccidono un bambino, tre donne e sgozzano un uomo, senza lasciare segni del loro passaggio sulla scena del crimine e senza trasportare segni di quella strage fino nel loro appartamento.

Dopo questo silenzio probatorio, testimoniato dalla relazione del reparto scientifico dei Carabinieri, è nata la “narrazione parallela” (poi diventata quella ufficiale, delle sentenze) della vicenda giudiziaria di Rosa e Olindo. Questa narrazione vive di tre grandi spot: la confessione, il Dna di una delle vittime sul tappetino dell’automobile di Olindo e la testimonianza della vittima sgozzata e sopravvissuta per miracolo (che avrebbe riconosciuto in Olindo il suo aggressore). La strage più cruenta della storia italiana, tra quelle compiute da “gente comune”, che vede “in campo” le tre prove più certe ed inossidabili: la parola degli accusati, la genetica e la deposizione della vittima.

Un vero e proprio miracolo giudiziario: Olindo e Rosa fantasmi sul luogo del delitto, ma condannati dalle prove più inconfutabili. Peccato che queste tre prove ricordino quei messaggi pubblicitari che ritraggono un mare cristallino, una spiaggia bianca di finissimo corallo e una fanciulla abbronzata che sorseggia un drink a bordo mare e poi, la realtà della località balneare pubblicizzata, è tutt’altra.

Così per lo spot probatorio della strage di Erba: il testimone Frigerio, appena risvegliatosi in ospedale, dopo l’aggressione, aveva fatto un identikit completamente diverso da quello di Olindo (farà il nome di costui solamente dopo che gli venne “rinfrescata la memoria” sul letto d’ospedale da un solerte agente, come testimoniano le intercettazioni ambientali); la macchiolina di Dna è un atto di fede perché non è mai stata visibile sul battitacco dell’automobile, ma “si dice” che fosse lì (esiste agli atti una fotografia fatta dagli investigatori che però presenta solamente non un cerchio rosso laddove quel reperto sarebbe dovuto trovarsi); le confessioni sono un coacervo di dubbi, errori, fraintendimenti, modificazioni di versione (sono centinaia le incongruenze in fatto tra quanto riferito dai condannati ed i riscontri concreti, persino il colore dell’accendino con cui costoro avrebbero appiccato il fuoco, l’orario in cui avrebbero staccato la luce degli appartamenti, il luogo della morte della signora Cherubini, l’utilizzo oppure no di acceleratori per appiccare l’incendio).

Dubbi e aporie, ipotesi ricostruttive piene di contraddizioni e incongruenze. Questa è la strage di Erba dopo 11 anni da quella tragica notte dell’11 dicembre. Non avevo mai visto Rosa Bazzi e Olindo Romano dal vivo, ma avevo stampate in testa le loro immagini del processo di primo grado. Rosa è uguale, forse addirittura più piccolina di come l’immaginassi, ma con l’aria e lo sguardo di un furetto.

Olindo è un vecchietto; dà l’impressione di essere assente rispetto al contesto in cui si trova. La scorsa settimana sono stato a Tunisi a trovare Azouz Marzouk. E’ espulso dall’Italia, ma vorrebbe assistere a questo mini-processo. Si trovava in Tunisia la notte della strage. Immediatamente gli investigatori si recarono a Merone (vicino Erba) dal fratello per arrestarlo. Solo lui, tunisino, poteva essere l’autore di quella strage terribile. Poi solo loro, i coniugi Romano.

Figure opposte di sospettati, antropologicamente incompatibili: da un lato l’arabo giovane, alto, robusto con frequentazioni discutibili; dall’altro due persone di mezza età, bassi, cicciottelli che badano solo al loro nido, l’appartamento in cui vivono ed alla loro vita banale di provincia. E ora? Spunterà un nuovo profilo criminale? Se così fosse lo meriterebbero Paola Galli, sua figlia Raffaella, il piccolo Youssef, Valeria Cherubini e Mario Frigerio.

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