Giovanni Vallesi, impiegato della Provincia di Pescara, ha perso i propri risparmi investiti in derivati che gli erano stati proposti dai funzionari. L'istituto però pretendeva i danni. Il Tribunale ha dato ragione al risparmiatore. I soldi però non li ha ancora rivisti
La banca gli fa sottoscrivere derivati, usa la sua posizione come ammortizzatore di perdite proprie, la chiude anche male gettandolo letteralmente sul lastrico e non contenta gli chiede pure 2 milioni di danni. Tre anni dopo è il nono nella lista dei truffati da risarcire, ma dopo 16 anni non vedrà un euro. La storia di Giovanni Vallesi è una delle più incredibili del risparmio tradito all’italiana. Risale a molto prima delle crisi di cui si sta occupando la Commissione parlamentare sulle banche ma, al pari di quelle, è figlia di una vigilanza assente.
E’ il 1999 quando Vallesi, impiegato della Provincia di Pescara da 1.300 euro al mese, inciampa come tanti nel crack dei derivati propinati dai funzionari della Caripe (capogruppo Popolare di Lodi), oggi popolare di Bari. Per quelle sottoscrizioni i colletti bianchi saranno chiamati a pagare di tasca loro cifre assai modeste mentre il cliente perderà un mucchio di soldi, quantificabili in circa 800mila euro di allora. “I risparmi di una vita”, dice oggi Vallesi che in questa ancora non ha visto tornare un euro: a marzo 2002 la banca aveva concluso quasi tutte le transazioni con le sue “vittime” con accollo di perdite per circa 28,7 milioni di euro. Restavano da definire solo quelle di cinque clienti, tra i quali il Vallesi appunto, che dell’elenco di 74 da risarcire era il numero 9.
Come è andata a finire lo racconta lui stesso. “A distanza di 16 anni non ho visto un centesimo, mentre altri professionisti e nomi noti dell’imprenditoria abruzzese sì”. Ma c’è di più. La banca nel 2004 ha pure tentato di mandarlo in rovina del tutto. All’ex cliente cui aveva svuotato il conto corrente a suon di investimenti ad altissimo rischio – mai segnalati come tali – per poi utilizzarne il deposito per ripianare le proprie perdite (a botte di 30mila euro al mese fino al 31 dicembre 2006) l’istituto bussava ancora per chiedere la bellezza di 2,539 milioni di euro. A Bankitalia, ancora a ottobre di quell’anno, diceva invece di voler giungere a una transazione con lui, in realtà “nulla faceva per ripristinare la situazione del mio conto e si apprestava anzi a scavarmi la fossa, mentre si volatizzava l’accantonamento in bilancio di 1,668 milioni di euro che l’istituto scriveva di aver fatto proprio per far fronte della mia posizione in perdita”.
Vallesi non pagherà mai i 2 milioni pretesi dalla banca perché nel gennaio 2005 è il Tribunale di Pescara a rigettare la pretesa, rilevando che del “contratto uniforme per derivati regolamentati” sottoscritto sei anni prima la banca aveva fatto carta straccia, specie laddove indicava la possibilità di recedere unilateralmente dal rapporto e la posizione in essere qualora fossero emerse “circostanze che incidono negativamente sulla situazione patrimoniale, finanziaria ed economica del cliente”. Di più, “l’istituto non offre prova alcuna – si legge nelle carte – dei presupposti fattuali di esercizio di quella eccezionale facoltà pattizia (…) e neppure del pericolo concreto di insolvenza del Vallesi, così da impedire il consolidamento di perdite in uno dei momenti più infausti della storia finanziaria recente”. La banca non ha fatto il suo mestiere neppure in ordine alla verifica (“come d’obbligo per un operatore qualificato”, scrive il giudice) delle informazioni necessarie a disegnare il profilo di rischio del cliente, “ancor più in situazioni di panico finanziario, quando prudenza minima impone di non assumere decisioni di dismissioni nel momento convulso che si determina in prossimità di eventi di caduta verticale delle quotazioni”.
Vallesi asserisce – documenti alla mano – di aver prodotto in questi anni una montagna di segnalazioni e “pubblici appelli” indirizzati ai massimi vertici della vigilanza bancaria, “in primis al Governatore Visco ma anche il Presidente della Consob Vegas ed a tanti altri che non possono non ammettere di aver ricevuto attraverso i desk dei loro uffici tutti questi ricorsi”. In particolare in uno di essi si dice espressamente che “nella lista dei risparmiatori coinvolti c’era anche un dipendente della banca Caripe che non solo invogliava a fare questo genere di operazione ma, fatto ancor più grave, faceva anche operazioni per proprio conto utilizzando per gli accrediti il conto corrente di un suo parente, ovverosia operazioni totalmente fuorilegge“. Circostanza documentata allegando all’uopo i tabulati della banca e facendo “nomi e cognomi e puntuali numeri dei conti correnti”, tutto documentato insomma. Ma nulla o quasi s’è mosso nel disinteresse delle autorità di vigilanza e giustizia. Corso Nazionale, nella propria funzione di organismo di controllo con poteri sanzionatori, ha infatti poi effettivamente condannato i dirigenti della Cassa di Risparmio di Pescara a pene pecuniarie ma a dir poco risibili: 10mila euro al massimo. Per il numero 9 dell’elenco dei clienti fregati non c’è stato nulla da fare. In 16 anni anni nessuno si è mosso, non Bankitalia né Consob. Non il Fondo Interbancario o la Banca popolare di Bari che ha incorporato la vecchia Caripe. Silenzio pure dalle Procure di L’Aquila, Pescara e Campobasso. L’unico a gridare resta lui, il cliente numero nove.