I lavoratori Amazon scioperano nel Black Friday, il venerdì di sconti che negli Stati Uniti si è imposto, a partire dagli anni 80, come tradizionale avvio dello shopping natalizio e che quest’anno ha contagiato anche le nostre profumerie di quartiere. “Ma se manca un mese a Natale…” inutile aprire qui il dibattito chiuso con l’argomentazione definitiva nel 1999 dagli Afterhours: “Non si esce vivi dagli Anni 80”.
Amazon promette sconti ogni cinque minuti per ingrossare il fatturato di 136 miliardi di dollari, 21 dei quali in Europa, dove il colosso delle vendite online ha goduto come gli altri giganti del web di un trattamento di favore sulle tasse, pagate solo su un quarto del fatturato. Possibile?! No, in teoria, e infatti la Commissione Europea presieduta da Jean-Claude Juncker ha condannato l’azienda a versare 250 milioni di tasse al Lussemburgo che ha favorito Amazon con un’aliquota fiscale ridicola quando il presidente del Lussemburgo era Juncker. Un omonimo?
Ai dipendenti vanno le briciole, denunciano i sindacati: “Nonostante gli introiti da capogiro, Amazon non vuole migliorare le retribuzioni né allentare i ritmi lavorativi”. Ritmi che costringono gli addetti ai magazzini di a turni massacranti, di 8 ore sempre in piedi, con una pausa di mezz’ora che diventa di venti minuti perché dieci se ne vanno per raggiungere a piedi le poltroncine dell’area relax dove sedersi.
“Avete mai provato a lavorare per cinque notti di seguito per 8 ore in piedi?”, racconta una ex dipendente dei magazzini Passo Corese su Indeed, il portale dove i lavoratori interinali recensiscono le aziende per le quali hanno lavorato: Aspetti positivi: “ottima soluzione per perdere peso”, ironizza. Aspetti negativi: “Tutti”. Nei magazzini di Castel San Giovanni, nel piacentino, lavorano duemila assunti a tempo indeterminato e fino a tremila precari prestati di mese in mese all’azienda dalle agenzie interinali con il monte ore garantite. Significa che si lavora quando serve all’azienda, con turni che variano notte e giorno a seconda delle esigenze dell’azienda “e mai del lavoratore”, lamentano i dipendenti. Ci sono gli impacchettatori e i picker, quelli che corrono tra gli scaffali e il nastro trasportatore per prelevare la merce ordinata on line.
Video di Simone Bauducco
Corrono fino a 15 chilometri al giorno: “L’azienda cronometra ogni attività all’interno del magazzino dall’andare ai servizi alla pausa pranzo estremamente breve rispetto a quanto dichiarato alla velocità della mansione prefissata da contratto”. C’è anche chi è soddisfatto, come Alessandro di Alessandria, che confida a una gazzetta locale: “Amazon è il top, c’è la pausa retribuita di mezz’ora in una sala con la tv, caffé e bevande gratis!”. Racconta poi che il “prodotto top” – anche quello – tra i più richiesti come regalo di Natale, è il cuscino con il telecomando tv incorporato. Sono andata a cercarlo per capacitarmene: ora l’algoritmo di Google mi perseguita con le pubblicità presumendo che io desideri acquistare anche il modello Cozy cup deluxe, quello che regge il telcomando e le bibite.
“I ritmi lavorativi non conoscono discontinuità e il sacrificio richiesto non trova incremento retributivo oltre i minimi contrattuali”, protestano i sindacati confederali che hanno indetto lo sciopero. Rincara la dose Si Cobas, il sindacato di base molto battagliero e radicato nel mondo della logistica, che oggi ha bloccato il magazzino di Castel San Giovanni.
L’azienda si giustifica: “Manteniamo relazioni con le rappresentanze dei lavoratori e le organizzazioni sindacali; allo stesso tempo portiamo avanti la nostra politica di porte aperte che incoraggia i dipendenti a trasferire commenti, domande e preoccupazioni direttamente al proprio management team. Crediamo fermamente che questo rapporto diretto sia il modo più efficace per capire e rispondere alle esigenze del nostro personale”.
Tradotto: “Chiediamo ai dipendenti di lamentarsi con i loro capi invece che con i loro delegati sindacali”, cosa non proprio agevole per i precari il cui rinnovo di contratto dipende dal feedback positivo o negativo (che naturalmente si chiama “feedback costruttivo”) del capo. “Restiamo focalizzati nel mantenere i tempi di consegna ai clienti per la giornata del Black Friday e per le giornate successive”. Traduzione: lo stiamo facendo per voi.
Per voi clienti. Il sacrosanto diritto del consumatore a ricevere la merce il più rapidamente possibile e al minor prezzo possibile viene sempre evocato dalle aziende della gig economy per giustificare la compressione al ribasso dei salari e dei diritti dei lavoratori. Confidano sulla certezza che l’Italia sia ormai una repubblica fondata sul consumo. Prima del diritto del lavoratore viene il diritto del consumatore, che per consumare deve però essere essere un lavoratore (o un mantenuto). Se ne convincono anche i lavoratori: Faccio turni massacranti di otto ore, ma posso consumare gratis le bibite durante la pausa: Top!
Video di Franz Baraggino
Così si è oliata la crisi della domanda: si produce e si vende poco perché si guadagna poco e saltuariamente, grazie alle leggi che per per poter produrre di più e vendere al prezzo più basso hanno consentito alle aziende di pagare poco i lavoratori e scaricare su di loro il rischio di impresa: quando ci sono dei picchi ti assumo, quando non ho bisogno di te, per un’ora o per una settimana, ti lascio a casa. Massimo guadagno per me azienda e per te consumatore che hai il sacrosanto diritto di vederti consegnato il cibo a domicilio ancora caldo e senza un sovrapprezzo dai riders in bicicletta.
Quelli che corrono di più, grazie al tuo feedback positivo, otterranno più lavoro e più paga. Quelli ai quali assegni una sola stella verranno rimossi dalla app e non otterranno più commesse, perché ciò che più ci sta a cuore è il tuo giudizio, caro consumatore. Sei tu che comandi. C’è il dettaglio che il lavoratore che guadagna poco e saltuariamente consuma anche poco e saltuariamente – se è in crisi la domanda, figuriamoci la risposta – ma ovvieremo pagando i lavoratori ancora meno e facendoli lavorare ancora di più per poterti così fare uno sconto maggiore: “Tutto al 30 per cento!”, così compri lo stesso, caro cliente, anche se guadagni il 30 per cento in meno di quello che guadagnava tuo padre alla tua età.
In Inghilterra un gruppo di attivisti ha lanciato il boicottaggio di Amazon: torneremo a fare acquisti, dicono, quando Amazon pagherà le tasse, tutelerà i diritti dei lavoratori e i li pagherà di più. Una battaglia che ci chiama in causa tutti, perché ci chiede di boicottare non uno specifico prodotto ma una modalità di consumo e di produzione. Ci chiede di non essere complici dello sfruttamento.
Non si tratta di riflettere sui bisogni indotti – anche se, di fronte al cuscino telecomando, un ragionamento pacato si impone – ma di riflettere sui bisogni artatamente rimossi: il riposo, il tempo libero, le ferie, la malattia. I bisogni che erano stati individuati come prioritari dai padri costituenti. Il lavoratore ha diritto al riposo e alle ferie retribuite e non può rinunziarvi, stabilisce la Costituzione, perché se non riposi fai una vita di schifo.
Il riposo retribuito, che tanti giovani oggi concepiscono come una concessione dell’azienda-top, è in realtà un diritto-dovere del lavoratore. Lo hanno rimosso, poiché sono entrati nel mondo del lavoro quando le intenzioni dei padri costituenti erano state tradite dalle leggi che hanno reso legale il lavoro incostituzionale: senza ferie pagate, senza “limite alla giornata lavorativa” trasformata in turni di otto ore. “La giornata” oggi può essere una nottata, per tutte le categorie di lavoratori.
Per tutelare il diritto del consumatore a consumare a tutte le ore, i supermercati rimangono aperti giorno e notte, i centri commerciali la domenica e durante le festività. Pazienza se i lavoratori protestano, se soffrono, si esauriscono, si deprimono, trascurano i figli e i compagni perché non reggono “i ritmi inconciliabili con la vita privata”, come scrivono molti dipendenti di Amazon, dove si resiste in media tre anni. Non proprio “l’esistenza libera e dignitosa” che i padri costituenti volevano assicurare a tutti grazie a un posto di lavoro.
Per rivendicare condizioni di lavoro più giuste dobbiamo mobilitarci come lavoratori ma anche come consumatori. Tornare a ragionare su quali sono, davvero, i nostri bisogni e i nostri diritti e batterci per quelli.
“Non compro mai niente, perché ogni volta che compro qualcosa penso che lo sto pagando con il mio tempo, e non c’è niente di prezioso del mio tempo”, dice l’ex presidente dell’Uruguay Pepe Mujica. Eccessivo? Forse, ma sono tanti gli eccessi che invece tolleriamo e che non ci appaiono più tali. Secondo il Los Angeles Times, nella casa di un americano medio ci sono 300mila oggetti, motivo per cui le dimensioni medie di una casa sono triplicate negli ultimi 50anni anche se la quantità di figli per famiglia si è considerevolmente ridotto.
Nonostante questo, un americano su dieci non ha spazio a sufficienza per stipare tutto quello che possiede e così una famiglia su dieci affitta un container o un magazzino. Quello dell’affitto degli storage è uno dei business più in crescita, racconta il New York Times, e i centri di “self storage” aprono nella misura di cinque ogni nuovo Starbucks.
Accettando come un fatto naturale il consumo sfrenato si finisce per accettare come legittima la condizione che lo alimenta: lo sfruttamento dei lavoratori – e delle risorse naturali – che aumenta per consentire alle aziende di aumentare il margine di profitto anche se la domanda è in calo, offrendo la merce scontata.
P.s.: Non penso affatto che sia facile. Personalmente, ci ho messo un po’ a modificare il mio stile di vita, complice il fatto che – a differenza di Mujica e degli altri lavoratori – venivo pagata per fare quello che diversamente avrei fatto gratis. E poi, di colpo, ci ho messo un attimo. L’attimo in cui mio figlio, cresciuto in un orfanotrofio, ha visto per la prima volta la mia scarpiera e mi ha domandato sorpreso: “Mamma, di chi sono queste scarpe?”. Non “Tutte queste scarpe”, come mi sarei potuta aspettare, ma “queste scarpe”. Non era sorpreso dal fatto che ne possedessi decine di paia – ipotesi troppo folle perché potesse sfiorarlo – ma non capiva perché tutte quelle persone avessero deciso di custodire le loro scarpe in casa nostra.