Di quel che Ratko Mladic – appena condannato all’ergastolo dal tribunale dell’Aja – ha fatto in quattro anni di guerra mi restano tre ricordi: l’odore instancabile dell’ultima fossa comune e la voce di una donna che, nell’estate del ’95, era stata stuprata davanti al marito e oggi che vive ancora a Srebrenica. E poi quel fossato, dietro il compound dei caschi blu a Potocari, dove i cetnici segarono le prime teste. Ma erano coltelli di guerrieri battezzati e nessuno pensò di titolare “Bastardi cristiani”…
Nel 1996, un anno dopo la fine della guerra, in un libro in cui cercavo di dare un senso a quello che avevo, parzialmente, raccontato, avevo tracciato un breve ritratto di Mladic che oggi forse ha ancora un senso, anche perché mostra che i generali idrofobi dipinti da Baj non erano solo frutto dell’immaginazione.
“Rat”, la guerra, Mladic non l’ha sempre avuta solo nel nome (“Ratko”) ma nel sangue, una “vocazione” che sprofonda le sue radici nelle foibe della storia balcanica. Suo padre morì nel 1945, attaccando il villaggio di Ante Pavelic, il “duce” degli Ustasha croati che guidò il genocidio dei Serbi, durante la seconda guerra mondiale e “Ratko” è stato l’esponente più sanguinario di una casta di generali-vendicatori che hanno condotto la pulizia etnica contro i croati e i musulmani come una gigantesca “rappresaglia” per quello che i serbi avevano subito mezzo secolo prima.
Rispetto ai generali-conferenzieri dei Caschi Blu, che nel rituale dei “Breefing” trasmettevano, con le mimetiche inamidate, la sicurezza computerizzata della guerra elettronica, i generali serbi sapevano di caserma e di “rakja” bevuta sulle prime linee con i loro soldati, ma questo non gli impediva di usare la tv a loro vantaggio.
Poche ore prima del massacro di Srebrenica, Mladic si fece filmare mentre rassicurava i rifugiati accarezzando le teste dei bambini, e ciò avvenne quando i suoi uomini avevano già ricevuto l’ordine di far cadere tutte quelle dei loro genitori.
Mentre stava negoziando la resa di Zepa, in presenza delle telecamere e dei caschi blu, Mladic brindò con Havdo Palic, il capo della difesa civile della città , poi, finita la ‘”press-conference”, lo fece uccidere. Misha Glenny (“The Fall Of Jugoslavia”) riporta la seguente conversazione telefonica fra Mladic e il capo della polizia croata di Spalato, una vecchia conoscenza.
“Sei tu Mladic?”
“Sì, sono io, vecchio diavolo, cosa vuoi?”
“Tre dei miei ragazzi sono scomparsi vicino a… voglio sapere cosa gli è successo”
“Beh, penso che siano tutti morti”
“Posso dire ai parenti che sono andati?”
“Sì, certo. Parola mia. Come va la famiglia?”
“Oh non male, grazie. E tu?”
“Benissimo. Se la cavano niente male”
“Mi fa piacere sentirlo. Ah, a proposito abbiamo trovato venti cadaveri dei vostri vicino al fronte, completamente spogliati. Li abbiamo buttati in una fossa e adesso puzzano, non potresti venire a prenderli, perché è davvero insopportabile”
Questa “confidenza” fra mercanti di morte, che lascia sbigottito l’autore, diventa più rara con la guerra in Bosnia, dove non c’è più una controparte, un “nemico”, con cui si scherza commerciando cadaveri, ma solo un “terreno” da ripulire.
“I Musulmani?”, avrebbe detto Mladic, “se dai spazio a uno solo di loro, arriverà con cinque mogli e prima che tu capisca cosa sta accadendo, ti troverai un villaggio!” (Ed Vulliamy “Seasons In Hell”).
Tratto da “Bosnia, la torre dei teschi. Lessico di un genocidio” di Mimmo Lombezzi (Baldini e Castoldi editore)