Il 21 novembre il presidente siriano ha ringraziato "per aver salvato il Paese" il leader russo, che il giorno successivo ha favoritola stretta di mano tra i leader di Iran e Turchia: "Mosca riesce a tenerli insieme - spiega Giuseppe Dentice, analista dell’Ispi - per trovare una Russia così forte in ambito internazionale dobbiamo tornare all’Unione Sovietica degli anni ’60-’70". Complice la debolezza degli Usa
È riuscito a rilanciare la figura del presidente siriano Bashar al Assad, oggi è a capo della coalizione che nel conflitto siriano può dire di rappresentare la fazione vincente, almeno in ambito militare, e continua a mandare a segno colpi diplomatici che rafforzano la sua posizione a discapito degli altri soggetti impegnati nell’area, uno su tutti gli Stati Uniti. Con la stretta di mano tra il presidente iraniano, Hassan Rohani, e il suo omologo turco, Recep Tayyip Erdoğan, Vladimir Putin ha posto un’altra pietra nel processo di costruzione della propria leadership in Medio Oriente.
Con l’aiuto di una Washington sempre meno efficace e l’incapacità dell’Arabia Saudita di ostacolare l’ascesa iraniana, il leader russo è riuscito a mettere Mosca sul gradino più alto della scena politica mondiale, in vista dei colloqui di pace sulla Siria che ripartiranno il 28 novembre a Ginevra. “Per trovare una Russia così forte in ambito internazionale – spiega a IlFattoQuotidiano.it Giuseppe Dentice, analista ed esperto di Medio Oriente dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) – dobbiamo tornare all’Unione Sovietica degli anni ’60-’70. È indiscutibile che Putin, favorito anche da una convergenza di fattori, si sia preso la scena in Siria e in Medio Oriente, ma non solo. Oggi, per prima cosa, i vari attori internazionali non vanno più a bussare alla porta della Casa Bianca. Vanno da Putin e dopo, semmai, chiamano Washington”.
È nel corso dell’ultima settimana che il capo di Stato russo ha sferrato nuovi colpi importanti. Lunedì a Sochi, sul Mar Nero, si è fatto fotografare mentre abbracciava Assad, che lo ha ringraziato per “aver salvato il Paese e aver permesso a migliaia di sfollati di tornare a casa”. Quello che il leader siriano non ha detto è che Putin è riuscito a imporre la sua figura nel futuro della Siria quando, fino a tre anni fa, la miglior prospettiva per il leader alawita sembrava quella di passare il resto dei suoi giorni in esilio. Subito dopo lo zar ha incontrato pubblicamente i presidenti di Iran e Turchia.
I due governi, storicamente rivali e che hanno conosciuto un recente avvicinamento soprattutto sulla questione curda, sono arrivati a un’intesa sulla creazione di un Congresso del Popolo Siriano che metta a un tavolo i rappresentanti del governo di Damasco e le diverse anime dell’opposizione. Di fatto, è riuscito a far accettare l’attuale governo damasceno da chi, all’inizio del conflitto, si era speso per farlo cadere, ossia Ankara. “Quest’ultima stretta di mano – continua Dentice – fortifica ulteriormente la posizione di Mosca. Prendiamo alcuni dei soggetti in campo: Turchia, governo di Damasco, Iran, milizie curde. Questi hanno tra loro diversi punti di scontro, ma hanno un punto in comune: la Russia. Mosca è un collante così forte da riuscire a tenere insieme tutti questi attori e questa sua caratteristica è allo stesso tempo causa e conseguenza della sua ascesa”.
A favorire la conquista della leadership da parte dell’uomo forte di Mosca, però, hanno concorso altri fattori: “Uno su tutti – spiega Dentice – è la debolezza degli Stati Uniti. Lo vediamo in campo internazionale, in Medio Oriente e in Asia, e anche in ambito interno. Non credo che fino ai colloqui di Ginevra assisteremo a un cambio d’atteggiamento di Washington. Anche perché, in questo preciso momento storico, per gli Usa è meglio rimanere defilati, proprio a causa della sua debolezza interna. Quando si sveglieranno? Probabilmente quando uno dei loro alleati più importanti nell’area ne avrà bisogno, ma non adesso”.
Proprio uno dei suoi più importanti partner mediorientali, l’Arabia Saudita, sta conducendo una politica totalmente opposta e molto più aggressiva, in funzione anti-iraniana: lo si vede nella continuità con cui dal 2015 conduce la lotta ai ribelli Houthi in Yemen, nella politica di isolamento adottata con il Paese meno allineato del Golfo, il Qatar, e in ciò che, ultimamente, ha tentato di scatenare il Libano contro Hezbollah e, quindi, l’Iran: “L’Arabia Saudita sta portando avanti da anni una politica di frazionamento in Medio Oriente in funzione anti-iraniana – continua l’analista – come ci dimostrano questi tre casi, in particolar modo il Libano, lo fa con scarso successo. Ma non mi aspetto che tiri il freno a causa della maggiore debolezza americana. La loro tattica è ribattere colpo su colpo all’ascesa dell’Iran, anche a costo di ufficializzare l’intesa con Israele che, ormai, non è più un segreto per nessuno”.
I risultati ottenuti dalla partnership tra Stati Uniti e Arabia Saudita, però, rimangono ancora limitati, almeno riguardo alla questione siriana. Nonostante la pressione che Riyad ha cercato di esercitare sul Partito di Dio e sui suoi alleati iraniani, è arrivato perentorio il comunicato del comandante in capo delle Guardie della Rivoluzione, Mohammad Ali Jafari: “Il disarmo di Hezbollah non è negoziabile”, ha dichiarato alla tv di Stato iraniana. Gli ha fatto eco Konstantin Kosachev, presidente della Commissione per gli affari esteri del Consiglio della Federazione Russa, che, come riporta l’Agi, ha dichiarato: “Ѐ perfettamente chiaro che gli americani non sono nella posizione di imporre condizioni”.
Chi invece ha la forza di farlo è proprio la coalizione con a capo la Russia. Mentre Putin faceva il padrone di casa a Sochi, nella capitale saudita ha preso il via l’incontro tra i 140 delegati dei gruppi d’opposizione al regime siriano per stabilire una linea comune in vista dei colloqui di Ginevra. Al Jazeera, che dice di aver avuto accesso a una bozza della risoluzione finale, scrive che in essa viene ribadita la convinzione “che una soluzione al conflitto in Siria può essere raggiunta solo con la partenza di Assad all’inizio del periodo di transizione”.
Una posizione che sembra fermamente legata a quella che i ribelli hanno chiarito già dai primi colloqui di pace, ma che, se si continua a leggere, appare ben più aperta a quella che sembra un’inevitabile presenza del presidente siriano nel futuro del Paese: “Il processo di transizione potrà includere membri dell’attuale governo, insieme a quelli dell’opposizione e di altri gruppi”, continua l’emittente qatariota. Quindi la presenza di rappresentanti, se non dello stesso Assad, non viene esclusa.
A sostenerlo è anche Suheir al-Atassi, ex membro dell’Alto Comitato per i Negoziati, organizzazione che riunisce diversi gruppi di opposizione siriani, che a Middle East Monitor spiega che ai gruppi ribelli è stato chiesto di accettare la permanenza al potere di Assad, proposta che ha provocato le sue dimissioni e quelle di altri membri. “Vedremo se i ribelli riusciranno a sposare una linea condivisa – dice Dentice – visto che sono molto frammentati al loro interno. C’è chi ha assunto posizioni più morbide rispetto all’idea di un futuro con Assad, mentre altri nemmeno vogliono sentir parlare di quello che per loro rimane il Macellaio di Damasco”.
Ai colloqui del 28 novembre, quindi, si arriva con il blocco Russia-Iran-Assad molto forte e una coalizione a guida statunitense, invece, debole e frammentata al suo interno: “La Russia in Medio Oriente ha trovato un palcoscenico sul quale mostrare la propria forza – conclude Dentice – ma se possiamo dire che al momento sono la fazione vincitrice in ambito militare, la ricostruzione sarà un passo ancora più impegnativo da compiere. La Russia dovrà essere brava a tenere insieme tutti i soggetti interessati a esercitare la propria influenza in Siria. Se non ci riuscirà o si tirerà fuori dai giochi troppo presto, rischieremo un nuovo Iraq”.