Raccontare la realtà superando stereotipi, cliché e pregiudizi, dosare e scegliere termini e parole per informare nel modo corretto e soprattutto nel rispetto della parità di genere. Nasce con questo obiettivo il Manifesto di Venezia, un documento varato dalla commissione Pari opportunità della Federazione nazionale della stampa italiana e nato da un lavoro corale che ha coinvolto la Cpo Usigrai e GiULiA Giornaliste, su proposta del sindacato Giornalisti Veneto. Non una carta deontologica che comporta doveri e sanzioni, ma una dichiarazione d’intenti per discutere e sensibilizzare, per cominciare a tracciare la strada verso un cambio di cultura nel racconto della violenza sulle donne, che come si legge nel documento “non è solo un problema delle donne”.
Per questo i firmatari del “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione”, che sarà presentato a Venezia il 25 novembre in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, si impegnano a farsi carico della questione e a essere i protagonisti di un possibile cambiamento. Come? Con l’impegno per una “informazione attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali e giuridiche”, che si esplicita in dieci punti prioritari da seguire indicati nel documento stesso. Tra questi, la formazione deontologica sui termini da utilizzare in caso di violenza su donne o minori, l’evitare stereotipi, il riconoscere il ruolo delle donne anche attraverso l’utilizzo di un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali, e ancora il sottrarsi a strumentalizzazioni che distinguono tra violenze di serie A e serie B.
“La risposta alla nostra iniziativa è stata molto positiva – spiega a ilfattoquotidiano.it Alessandra Mancuso, presidente della commissione Pari opportunità della Fnsi – Quello che volevamo è che si parlasse del tema e questo è stato fatto. Sono state fatte riunioni, assemblee nelle redazioni, le adesioni al manifesto sono oltre 600 e sono arrivate anche da tanti colleghi uomini”. Nel documento si propone anche l’uso di un linguaggio consapevole, che eviti termini fuorvianti come “raptus”, “follia”, “gelosia”. “E’ giusto, perché le parole possono essere pietre e non vanno lanciate. – chiarisce Mancuso – Non bisogna descrivere una violenza come se fosse frutto di una causa esterna. Come vuole la Convenzione di Istanbul, deve essere riconosciuta come un fenomeno trasversale dovuto a un rapporto di disuguaglianza tra sessi”. Sì dunque all’uso del termine “femminicidio” per i delitti in cui le vittime sono donne, no al racconto dell’omicidio dal punto di vista del colpevole o al suggerimento di attenuanti verso l’omicida, e no anche alle descrizioni morbose, ai dettagli superflui, all’uso di immagini che riducano la donna a oggetto del desiderio. Regole specifiche che hanno l’obiettivo più generico di creare una cultura diversa a partire da chi per lavoro tutti i giorni utilizza parole per descrivere e informare anche su fatti che riguardano soprusi e violenze in cui le donne sono vittime. “E’ un impegno di lungo corso, perché è una questione di cambiare la cultura delle redazioni – conclude Mancuso – Ci vorrà tempo, e noi da parte nostra continueremo con la formazione”.