“Basta con i partiti! Riprendiamoci il Paese! Mettiamoci al lavoro e cerchiamo di risolvere noi i problemi, senza professionisti politici, senza mestieranti di chiacchiere”.
Chi ha pronunciato questa frase? Trump? Grillo? Berlusconi? No, anche se potrebbe essere un passaggio di molti loro discorsi.
Queste parole sono del 1945, di Guglielmo Giannini, fondatore del Fronte dell’Uomo Qualunque, che potremmo eleggere precursore onorario dell’Internazionale Populista. Frasi attuali oggi più che mai, che rimbombano nelle piazze riempite dai leader populisti, sempre sorridenti e sicuri di sé, novelli pifferai che attraggono le masse con un’affascinante melodia composta da promesse irrealizzabili e slogan liberatori. Sopra una “ruspa” come non sentirsi invincibili davanti all’”invasione degli immigrati”, portati in Italia con “i taxi del Mediterraneo” per “rubarci il lavoro”?
Notizie scioccanti quanto false ogni giorno inquinano il dibattito e alimentano la paura. E la paura funziona sempre in politica, una politica troppo spesso distante dai problemi delle persone, degli ultimi. Non a caso il populismo attecchisce proprio dove la forbice delle disuguaglianze è più larga, dove l’ascensore sociale è fermo. Tra un commento sgrammaticato, un insulto e una minaccia, anche l’escluso della società trova nei social l’unico strumento di partecipazione democratica. Perché lì può dire la sua, su tutto. Può sfogarsi, senza freni inibitori. E ad esacerbare gli animi, paradossalmente, è proprio l’algoritmo di Facebook. Studiato per crearti un habitat confortevole, ti suggerisce argomenti e persone simili a te. Polarizzando le idee. Radicalizzando pensieri e sentimenti, come la paura appunto. Riducendo così al minino il confronto, sale della democrazia.
Non a caso i social network si sono rivelati “l’arma più potente” dei populisti. Come per l’elezione di Donald Trump, l’affermazione del M5S, o la Brexit. A volte, con scenari inquietanti, come l’attività dei Russi sui social. D’altronde è stato Trump stesso a riconoscere che Facebook e Twitter lo hanno aiutato a vincere: “È come avere il New York Times senza sobbarcarsene i costi” ama dire.
E così, tutto diventa semplice e immediato. Se vince le elezioni, “domani mattina” il populista risolve qualsiasi problema. E succede che vinca, in effetti.
Trump diceva che all’indomani della sua elezione avrebbe fermato l’immigrazione costruendo un muro per evitare i flussi migratori dal Messico. E lo avrebbe pure fatto pagare ai messicani. Oggi, a distanza di un anno dalla sua elezione, non c’è un mattone di quel muro e nemmeno se ne parla più (per fortuna, aggiungiamo noi). Puigdemont prometteva l’indipendenza della Catalogna. Ha vinto il referendum indipendentista e, subito dopo, è fuggito in Belgio per non farsi arrestare, confermando così il paradigma del perfetto populista: cavalcare il sentimento delle masse, promettere l’irrealizzabile, scappare lontano incurante delle conseguenze. Come con la Brexit: Farage ha cavalcato le paure degli inglesi, ha vinto il referendum e si è dimesso dieci giorni dopo. Saranno altri ad occuparsi delle conseguenze disastrose, mentre lui rimane eurodeputato antieuropeista stipendiato da tutti noi.
Berlusconi nel 1994 scelse di “scendere in campo” perché stanco dei “politici falliti”. Lui era l’imprenditore di successo. E via con le promesse. Una fra tutte, il milione di posti di lavoro. Nella realtà, un milione di posti di lavoro perduti durante i suoi governi. E il Paese sull’orlo del default. Però a differenza degli altri, dopo il fallimento, lui non se n’è andato. Anzi, oggi risorge come l’araba fenice nella nuova veste di leader dei moderati. Ergendosi, proprio lui, a baluardo contro il populismo. Salvo siglare il cosiddetto “patto dell’arancino” col campione del populismo nostrano Matteo Salvini, ad oggi il più spregiudicato utilizzatore dell’odio in rete. La gente ha paura degli immigrati? E allora, sulla sua pagina, una raffica quotidiana di video e notizie tendenziose che hanno il solo scopo di accrescere il sentimento di intolleranza, direttamente proporzionale al suo consenso. Più odio, più voti. Odio verso i migranti in questo caso.
Verso politici e giornalisti, nel caso di Beppe Grillo, anche lui luminare del populismo italico che dal resort di Briatore (quello sì a 5 stelle) detta la sua ricetta pauperistica per aiutare chi ha meno: il teorico della “decrescita felice” con la povertà degli altri. Con lo stesso livore verso la classe politica (di cui ha fatto parte) il Generale Pappalardo, entrato a gamba tesa nel panorama variegato del populismo nostrano. Ex politico trombato, con in tasca vitalizio e ricca pensione, tra un pranzo alla buvette del Senato e un comizio improvvisato, il Generalissimo ha come unico scopo l’arresto coatto dei politici, perseguitati per strada al grido “cialtroni, abusivi”. Arresti degni del più brillante film dei Vanzina, con tanto di colpo di scena finale: “Grazie e arrivederci!”.
“La situazione politica italiana è grave ma non seria” diceva Flaiano.
E se fosse addirittura comica?