Una recente rilevazione dell’apprezzabilità segnala come le gerarchie giovanili italiane in materia di ruoli professionali attualmente privilegino la figura imperiosa dello chef (a riprova che la TV, con le sue trasmissioni sulle cucine più o meno da incubo, continua a colonizzare gli immaginari collettivi); mentre in passato le star risultavano disc-jockey e veline. Intanto quegli stessi giovanotti e fanciulle vanno a strafogarsi di junk food (pizze gommose o insapori hamburger) alla faccia dei modelli alimentari di alta ricercatezza propugnati dai loro eroi.
Come mai? Vorrei provare a rispondere prendendola un po’ da lontano: l’effetto di un’americanizzazione regressiva della società tradotta in reificazione che svilisce tutti gli ambiti della vita. Cui sono particolarmente esposte le nuove coorti generazionali; consumatrici di junk food, ma anche di junk music per finire con lo junk skin, la pelle ridipinta tipo squame di un rettile.
Nelle scorse settimane ho fatto indignare buona parte dei visitatori di questo blog con l’invito a demistificare l’opera dell’industria discografica anglo-americana, rea di imporci dogmaticamente la colonna sonora del tempo. Da qui la reazione scandalizzata dei tanti convinti che Bob Dylan sia un poeta da premio Nobel e i complessini a base di chitarre elettriche e percussioni, apparsi sulla scena al seguito dei Fab Four, risultino un’ininterrotta sequenza di geni musicali. Non – invece – pollame in batteria; il prodotto da laboratorio di un marketing ossessivo, al lavoro per rifornire delle dosi richieste un’assuefazione generazionale; che va dalla febbre del sabato sera al delirio da sballo.
Confesso di aver provato molta tenerezza leggendo i commenti di questi credenti, fiduciosi di vivere nel (e ascoltare il) migliore dei mondi possibili, gratificati dalla convinzione di praticare un radicale anticonformismo, accreditando le gerarchie del gusto commerciale. Quando – in realtà – hanno interiorizzato fideisticamente il “pensiero pensabile” a promozione del merchandising di moda. La moda come induzione subliminale delle opzioni d’acquisto.
Lo stesso dicasi per la moda dilagante della junk skin, la mania dei tatuaggi subalterna di un’estetica trucida che trova i propri inquietanti modelli di riferimento nei corpi istoriati della Mafia Siberiana o della Yakuza giapponese. Infine, le pratiche alimentari promosse dal capitalismo globale che si proclamano “fast”, ma che – in effetti – anestetizzano il palato e inducono preferenze anticamera dell’obesità. Rimuovono drasticamente l’idea stessa di nutrizione come scelta culturale.
E se si parla di americanizzazione, dipende perché le centrali che producono e diffondono i gusti di massa e relativi prodotti sono anglo-americane. L’effetto di un’egemonia imperante dal secondo dopoguerra, quanto elaborata a partire del primo Novecento, quando il presidente Wodroow Wilson teorizzava un impero americano del consumo omologato allo stile di vita stelle e strisce. Del resto la motorizzazione fordista e la grande distribuzione sono effetti di tale progetto.
Il salto qualitativo avvenne negli anni Cinquanta, quando il complesso industriale si rese conto che il mercato emergente dei grandi numeri era quello degli under trenta di periferia e con un reddito da lavoro. I grandi acquirenti di dischi rock e jeans, bevitori compulsivi di CocaCola. Sulla scia di tale scoperta abbiamo cambiato modelli di riferimento in materia di stile, mentre la civiltà delle buone maniere (con tutti i suoi limiti e ipocrisie) cedeva al cafonal. Operazione commerciale strombazzata come inclusione democratica.
E i testimonial incorporavano la corsa al peggio: Elvis “the pelvis” era l’antesignano dell’appropriazione di musica nera sbiancata dall’elettricità, per ridursi a maschera dell’intrattenimento dei giocatori di slot machine a Las Vegas; con voce mielosa, ciuffo impomatato e un candido abito sfrangiato da capo Navaho che neppure Tex Willler… Flavio Briatore trionfa a modello biografico di successo dei giovani italiani nerd.