Francesco Granati, nato a Roma, lavora per un'azienda che si occupa di campagne pubblicitarie audio. E nella capitale britannica ha possibilità che a casa non avrebbe mai avuto. Ma col passare del tempo la nostalgia si fa sentire. "Dentro di me, una voce mi dice che Londra è la scelta migliore. Ma la verità è che non so quanto ancora la potrò ascoltare"
Nelle lettere degli italiani emigrati negli Stati Uniti lo scorso secolo si legge spesso che il momento più bello della loro nuova vita a stelle e strisce era quando si ritrovavano a Little Italy a parlare della loro vita precedente in Italia. Immagini dello scorso secolo che però rispecchiamo bene lo stato d’animo dei molti italiani che ancora oggi si sentono costretti a vivere lontani da casa. Francesco Granati ne incontra molti di questi espatriati malinconici quando esce a bere nei locali di Londra. “In tantissimi italiani sentono la necessità, marcata spesso da toni di rassegnazione, non la voglia di dover vivere all’estero”. Francesco ne ha fatti diversi di dialoghi come questo da quando, quattro anni fa, si è trasferito nella capitale inglese dove è manager in una piccola azienda che si occupa di campagne pubblicitarie audio.
“La sensazione che viene a galla in questi discorsi è sempre la stessa: vivere e lavorare a Londra è una scelta forzata”. Discussioni tra italiani all’estero in cui due sconosciuti sanno di essere accomunati dal fatto che entrambi non se ne sarebbero andati dall’Italia se tutto funzionasse. “C’è sempre la scrollatina di spalle e lo sguardo come per dire ‘Sì, mi manca casa, ma cosa devo fare? Qui c’è lavoro e fossi rimasto in Italia sarei stato abbastanza fregato‘”. Nella sua piccola indagine personale da espatriato, Francesco non ha mai sentito nessun italiano dire: “Quanto sto bene qui a Londra, non ho per niente nostalgia dell’Italia”. “A tutti manca il cielo blu, il caffè e il mangiare buono, i coni gelato a 2 euro e la frutta e la verdura che sanno di qualcosa. Manca l’Italia, ma si sta qui”.
Nato a Roma, dopo una laurea in scienze della comunicazione Francesco ha studiato due anni a Vienna (in management della comunicazione) e poi un anno ad Amsterdam, all’UvA, con un master in comunicazione persuasiva. Londra, poi, è semplicemente accaduta avendo vinto un concorso per uno stage retribuito nella capitale inglese. Così, nel 2013, Francesco atterra all’aeroporto di Heathrow mentre realizza che forse, a 28 anni, è un po’ troppo grande per diventare uno stagista. Poi si tranquillizza, “credendo alla grande bugia, non solo italiana, che per costruirsi una carriera degna di tale nome si debba studiare per anni e anni all’università”. Londra lo accoglie con il suo meteo. Grigio. Pioviggina. “E dire che avevo sempre pensato che non ci sarei mai andato a Londra. I racconti di amici riecheggiano nella mia testa: ‘A Londra se non hai soldi non sei nessuno’. Ma dato che lassù qualcuno ha un grande senso dell’umorismo, eccomi qui”.
In quattro anni per il 32enne romano arrivano gli scatti di stipendio, un lavoro nel suo ambito di studi e un appartamento nel quartiere verde e residenziale di Putney che gli permette finalmente di smettere di condividere casa con estranei. “Una voce dentro di me continua a razionalizzare e a dirmi che è giusto così, che qui ci sono più opportunità che nella mia Roma e in Italia”. Una voce alimentata dai racconti di chi in Italia è restato, come le chiamate con una cara amica che a 27 anni sta facendo uno stage a malapena retribuito in un’azienda che le ha fatto capire non l’assumerà per problemi di budget, “come avranno fatto con tutte le stagiste prima di lei”. “Così la voce continua a razionalizzare, imperterrita, inarrestabile, e dice che Londra è la scelta migliore. Ma la verità è che non so quanto ancora la potrò ascoltare”.
Quel che gli manca dell’Italia non può essere compreso da chi non ha vissuto fuori dal nostro paese per il tempo necessario. Quanto blu è il nostro cielo, la varietà dei paesaggio, la cucina, e poi ovviamente famiglia e amici. “Probabilmente molti pensano: ‘Hai voluto la bicicletta, ora pedali’. Vero, ma è anche vero che sto pedalando da 4 anni e forse mi sono un po’ stufato di questa bici”. Così il mix di emozioni diventa esplosivo, quando la voglia di tornare si scontra con il timore di aver fatto tanti passi in avanti negli ultimi anni, in termini di carriera, e di farne altrettanti indietro quando tornerà a casa. “La domanda si riduce a: preferisco il cielo blu, gli amici, la famiglia oppure una carriera garantita nella grigia ma dinamica Londra?”.
E mentre tenta di rispondere a questa domanda, l’emigrato all’estero – oggi come cento anni fa – cerca di stare con i propri connazionali per ricreare un sentore, certo illusorio, di essere in patria. “Strano ma se sono in Italia non ho necessariamente questo senso di fratellanza immediata nei confronti degli italiani. All’estero è diverso, perché ci sentiamo uniti da questa scelta difficile di essere andati via dal nostro paese”. Così passare del tempo coi propri connazionali a Londra “rinvigorisce”, e forse permette di posticipare di un altro anno ancora il ritorno verso casa. “Ricorda un po’ la scena di Quo Vado? in cui Checco Zalone, emigrato in Norvegia, suona il clacson ad una macchina ferma di fronte a un semaforo verde e viene insultato in romano con un ‘li mortacci tua’”. La felicità sul suo volto, seguita dal ‘Sei di Roma!’, “racchiude tutto quello che prova un italiano all’estero che sogna di stare a casa”.