Dopo un lungo articolo del quotidiano romano, centinaia di esponenti del mondo accademico internazionale si schierano accanto a Maha Abdelrahman, la professoressa di Cambridge che supervisionava il lavoro del ricercatore friulano trovato senza vita il 3 febbraio 2016 alla periferia del Cairo: "Qualunque scienziato sociale potrebbe verificare che quella usata da Giulio è, di fatto, la metodologia di ricerca ideale per studiare questioni contemporanee"
“Giulio voleva fare ricerca sui sindacati indipendenti da anni, cioè da prima del colpo di Stato del 2013, e questo argomento non era assolutamente pericoloso”. Gilbert Achcar è professore alla Soas, la School of Oriental and African Studies, di Londra e ha conosciuto Giulio Regeni diversi anni fa, quando il giovane italiano si recò nel suo ufficio per proporgli la sua tesi di dottorato sulle organizzazioni sindacali egiziane che si erano formate dopo la rivoluzione di Piazza Tahrir.
Il professor Achcar ha deciso di parlare a Ilfattoquotidiano.it perché è il firmatario, assieme più di 250 esponenti del mondo accademico internazionale, di una lettera a supporto di Maha Abdelrahman, la professoressa di Cambridge che supervisionava il lavoro di Giulio Regeni, il ricercatore friulano trovato senza vita il 3 febbraio 2016 alla periferia del Cairo.
“Ho deciso di firmare quella lettera dopo l’articolo apparso su La Repubblica lo scorso 2 novembre”, continua il professore. Che ricorda le conversazioni avute con Regeni e conferma come il ricercatore di Fiumicello fosse fermamente convinto della sua scelta sulla ricerca: “Quell’articolo è oltraggioso e denigratorio per una docente che noi stimiamo. Dovevamo reagire perché non è stata certo lei a mandare Giulio a morire – spiega – La scelta è caduta poi su di Cambridge e non sulla mia università per una semplice questione di fondi. Inoltre, nessun ricercatore era mai stato in pericolo sino a quel momento: se qualcuno aveva dei problemi con i servizi di sicurezza veniva allontanato dal Paese e non di certo torturato e ucciso”.
Nel pezzo contestato dagli accademici si annunciava l’invio da parte della Procura di Roma di un ordine europeo di investigazione alla “United Kingdom Central Autorithy” (Ukca), l’organo britannico giudiziario di collegamento con le magistrature dei paesi Ue, a carico di Maha Adelrahman. Nell’ordine era contenuta la richiesta di interrogatorio formale dell’accademica e l’acquisizione dei suoi tabulati telefonici, mobili e fissi, utilizzati tra il gennaio 2015 e il 28 febbraio 2016, per ricostruirne la rete di relazioni.
Gli inquirenti italiani lamentano il silenzio dell’ateneo britannico nonostante la professoressa Abdelrahman abbia in realtà comunicato per due volte con i magistrati italiani. La prima occasione è stata il giorno dei funerali di Giulio a Fiumicello (in questo contesto i magistrati italiani contestano che, a differenza degli altri conoscenti di Giulio, la docente non ha consegnato loro pc e telefoni), mentre alcuni mesi dopo ha scelto di rispondere con una mail alla polizia del Cambridgeshire.
“Per quanto sia comprensibile che alcune di queste domande (formulate dalla Procura di Roma, ndr) possano essere rilevanti per l’indagine italiana, troviamo il resoconto de La Repubblica tendenzioso, nonché volutamente fuorviante l’analisi di tali questioni”, ribatte il documento. “Nonostante una serie di indizi inconfutabili indichino chiaramente le responsabilità della polizia egiziana, La Repubblica tenta di attribuire parte della responsabilità per l’omicidio di Giulio alla professoressa Abdelrahman. Il quotidiano, inoltre, sosteneva che la tutor di Giulio lo avesse “incaricato” di lavorare su un argomento che lei sapeva essere pericoloso, e che Giulio stesso era riluttante a perseguire. In sostanza si affermava che fosse stata lei a scegliere il tema di ricerca, i metodi, gli oggetti e persino le domande di Giulio”.
Anche sulla questione del metodo di ricerca partecipativa impiegato da Giulio, gli accademici specificano che “qualunque scienziato sociale potrebbe verificare che questa è, di fatto, la metodologia di ricerca ideale per studiare questioni contemporanee”. A firmare la lettera ci sono diversi nomi prestigiosi dell’accademia internazionale tra cui Khaled Fahmy, professore di storia di Cambridge, lo stesso ateneo della professoressa Abdelrahman, e diversi accademici italiani. “Abbiamo messo insieme le forze perché ognuno di noi in queste settimane ha riflettuto e ha pensato di dover rispondere a questo articolo”, spiega Andrea Teti, professore associato dell’Università di Aberdeen che ha curato la traduzione in italiano della lettera. “Dobbiamo difendere la reputazione della professoressa Abdelrahman e di quella del mondo accademico”.
Il testo integrale della lettera
Noi sottoscritti respingiamo categoricamente le accuse malevole e totalmente infondate rivolte alla Professoressa Maha Abdelrahman nel quotidiano italiano La Repubblica il 2 novembre 2017. La Professoressa Abdelrahman, una studiosa di fama internazionale all’Università di Cambridge, è stata supervisor di Giulio Regeni, un dottorando italiano che stava svolgendo ricerche sui sindacati indipendenti egiziani, quando fu rapito, torturato e assassinato all’inizio del 2016. Esistono prove schiaccianti circa il coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane nell’omicidio di Giulio, tanto che Declan Walsh, corrispondente dal Cairo per il New York Times, scrisse nell’agosto 2017 un articolo d’inchiesta molto dettagliato, secondo il quale il governo degli Stati Uniti sarebbe in possesso di “prove incontrovertibili sulla responsabilità ufficiale egiziana”, anche se non è in grado di rendere pubbliche le prove senza comprometterne la fonte.
Nonostante una serie d’indizi inconfutabili indichino chiaramente responsabilità della polizia egiziana, La Repubblica tenta di attribuire parte della responsabilità per l’omicidio di Giulio alla Professoressa Abdelrahman. L’articolo elenca le seguenti domande, che il pubblico ministero italiano vorrebbe porre alla Professoressa Abdelrahman: 1. Chi scelse il tema specifico della ricerca di Giulio? 2. Chi scelse il supervisor che avrebbe seguito il lavoro sul campo di Giulio al Cairo? 3. Chi scelse il metodo di ricerca partecipata che Giulio applicò alla sua ricerca? 4. Chi formulò le domande che furono poste agli ambulanti che Giulio stava intervistando? 5. Giulio condivise i risultati delle sue ricerche con la Professoressa Abdelrahman?
Per quanto sia comprensibile che alcune di queste domande potrebbero essere rilevanti per l’indagine italiana, troviamo il resoconto de La Repubblica tendenzioso, nonché volutamente fuorviante l’analisi di tali questioni. Ad esempio, La Repubblica insinua che la Professoressa Abdelrahman abbia “incaricato” Giulio di lavorare su un argomento che lei sapeva essere pericoloso, e che Giulio stesso era riluttante a perseguire. Inoltre, La Repubblica insinua che sia stata lei a scegliere il tema di ricerca, i metodi, gli oggetti e le domande di ricerca di Giulio.
Troviamo assurde queste insinuazioni. Esse dimostrano una fondamentale ignoranza delle procedure riconosciute a livello internazionale nello stilare un progetto di dottorato, nonché nello svolgimento dello stesso. I supervisors accademici non scelgono i loro studenti di dottorato; piuttosto, sono gli studenti che scelgono i supervisors. I supervisors di un dottorato non impongono i loro programmi di ricerca a studenti ignari; gli studenti, di solito, lavorano in una determinata area di ricerca per un po’ di tempo prima di intraprendere un dottorato, e poi cercano un supervisor [specializzato] in quell’argomento. Nel caso di Giulio, lui aveva maturato per anni un interesse per i sindacati indipendenti, e aveva lavorato in Egitto ben prima ancora di rivolgersi alla Professoressa Abdelrahman come suo supervisor. Sulla questione del metodo di ricerca partecipativa impiegato da Giulio, qualunque scienziato sociale potrebbe verificare che questa è, di fatto, la metodologia di ricerca ideale per studiare questioni contemporanee.
Queste e altre insinuazioni contenute nell’articolo denotano un’ignoranza intenzionale, una volontà di travisare e distorcere i fatti, nonché la volontà di inventare menzogne elementari.
Di fatto, non sarebbe stato possibile né per la Professoressa Abdelrahman né per chiunque altro prevedere ciò che sarebbe successo a Giulio. Il pericolo peggiore che alcuni ricercatori stranieri in Egitto avrebbero potuto temere al momento della scomparsa di Giulio era l’espulsione dal paese. Col senno di poi, La Repubblica insinua che la tragedia occorsa a Giulio avrebbe potuto essere prevista. Questo è inoppugnabilmente falso.
Un ultimo punto importante su cui La Repubblica sbaglia: la Professoressa Abdelrahman NON ha rifiutato di parlare con le autorità italiane. Ai funerali di Giulio a Febbraio 2016, fu interrogata per un’ora e mezza dal procuratore italiano. Il 15 giugno 2016, rispose per iscritto a molte domande supplementari poste dal pubblico ministero italiano e dichiarò di essere disponibile a rispondere a qualsiasi ulteriore domanda. Fino al momento in cui è stata presentata la rogatoria alla quale si riferisce l’articolo de La Repubblica, non vi erano state ulteriori comunicazioni da parte delle autorità italiane. Non solo ma, rispondendo alla rogatoria, la Professoressa Abdelrahman ha accettato di buon grado di essere nuovamente interrogata.
Giulio non fu l’autore della sua tragedia. Né la Professoressa Abdelrahman fu in alcun modo responsabile della morte di Giulio. La responsabilità per il rapimento, per la tortura e per la morte di questo brillante studente di Cambridge ricade direttamente sul regime egiziano. Ed è necessario che i giornalisti d’inchiesta seri facciano luce sulle zone d’ombra.