Uno schema ricorrente. Che gli uomini – tanti – sono abituati ad applicare e le donne – tutte – a sperimentare sulla loro pelle fin da piccole. Abituate a essere interrotte durante un discorso perché la credibilità della loro esperienza deve essere inferiore rispetto a quella di un maschio. E non parliamo dei Paesi del Medio Oriente dove “la testimonianza delle donne non ha valore giuridico”. Parliamo di Occidente, Europa, Stati Uniti, dove le donne vengono “addestrate all’insicurezza e all’autolimitazione, mentre gli uomini tengono in esercizio la loro tracotanza“. I modi sono tanti e li elenca Rebecca Solnit nel suo Gli uomini mi spiegano le cose – Riflessioni sulla sopraffazione maschile (Ponte alle Grazie, traduzione di Sabrina Placidi). Nel mondo anglosassone l’attitudine ha meritato un neologismo: mainsplaining, che “nel 2012 era ormai in uso nel giornalismo politico mainstream”. Succede quando parlano alle donne senza preoccuparsi o scusarsi se stanno aprendo bocca per “dire cose che io so e loro non sanno”.
Alcuni uomini spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando
L’autrice, che ha pubblicato diversi libri dalla politica alle esperienze di viaggio, spiega cosa sia con un esempio. Il contesto: lei, una festa ad Aspen, un invitato che aveva “fatto un sacco di soldi”. Lui che le chiede dei suoi libri “nel modo in cui si esorta un’amichetta di sette anni a raccontare delle sue lezioni di flauto“. Lei accenna a un contenuto dell’ultimo che ha pubblicato, senza citarlo, e nomina il fotografo inglese Eadweard Muybridge. Lui sente quel nome e la interrompe, parlando di un famoso libro uscito sul tema. E non si rende conto, anche quando gli viene detto ripetutamente da un’amica, che quel libro l’ha scritto la donna che ha davanti, perché continua a pontificare compiaciuto, “gli occhi fissi sul lontano e indistinto orizzonte della propria autorità“. Riprende come se niente fosse la sua lezione ex catedra. Un episodio che racconta quello che tante donne vivono ogni giorno: “Alcuni uomini spiegano le cose, a me come ad altre donne, indipendentemente dal fatto che sappiano o no di cosa stanno parlando”.
Atteggiamenti che diventano “guerre interiori” perché ci si convince della “propria superfluità“. Metodi che sono “un invito al silenzio” e che subiscono il loro contrappasso quando, al contrario, si dice qualcosa che contraddice un uomo. In quel caso essere credute – strettamente legato al diritto di parlare – è ancora più complicato. Lo è stato per Nasfissatou Diallo, la cameriera violentata da Dominique Strauss Khan – all’epoca dei fatti direttore dell’Fmi – “raffigurata come una bugiarda” e accusata di essere una prostituta perché si scagliava contro un uomo di potere, così come per la prof di diritto Anita Hill che nel 1991 denunciò davanti alla commissione Giustizia del Senato Clarence Thomas, suo superiore e giudice della Corte Suprema per averla obbligata “ad ascoltarlo mentre descriveva dei video porno da lui visionati e le sue fantasie sessuali”. Hill all’inizio venne criticata ferocemente per non avere denunciato prima, con “la squadra dei maschi interroganti, tutti maschi, che la trattò con sufficienza” e i repubblicani che insinuavano che si fosse inventata tutto. La sua è stata una battaglia tutta americana che ha però “inaugurato la rivoluzione del riconoscimento e della lotta contro le molestie sessuali nell’ambiente lavorativo”.
E’ difficile farsi ascoltare per le ragazze che hanno subito molestie, in un mondo che invita le donne a vestirsi in modo sobrio per evitare le aggressioni o, magari, a non uscire di casa anziché dire ai maschi di non stuprare. Così “la maggioranza delle donne e delle ragazze limita i propri comportamenti” e “vive nella paura di essere violentata. Per gli uomini in genere non è così”. E’ difficile essere ascoltate e credute in una società intrisa di lad culture, “quel genere di sottocultura fatta di atteggiamenti derisori e allusioni sessuali in cui sguazzano alcuni giovani uomini”. Dove sotto traccia permane l’idea che il sesso sia dovuto, magari perché “avevamo eccitato i desideri degli uomini” per qualcosa “che avevamo detto, fatto o semplicemente indossato”.
Freud affermò che le donne immaginavano e desideravano gli abusi sessuali di cui si lamentavano
Opinioni diffuse oggi e che affondano le loro radici anche nella psicanalisi di Sigmund Freud, che tracciò la linea del discredito verso le donne. Se nel 1896 scriveva che “alla base di tutti i casi di isteria” ci sono “uno o più casi di esperienze sessuali precoci”, dopo rinnegò tutto a causa delle “crescenti preoccupazioni riguardo alle implicazioni sociali troppo radicali della sua ipotesi” (Guarire dal trauma, Judith Herman). Quindi, “con una perseveranza ostinata che lo condusse a una grande involuzione teorica, egli affermò che le donne immaginavano e desideravano gli abusi sessuali di cui si lamentavano”. Così se raccontavano “cose ripugnanti”, era perché non riuscivano a distinguere la realtà dalla fantasia. Il discredito, poi, aumenta quando sono loro stesse a raccontare le loro trasgressioni sessuali. Accusate di essere bugiarde, deliranti, confuse, isteriche. Cassandre, quando Cassandra era destinata a fare profezie a cui nessuno credeva perché rifiutò di concedersi ad Apollo. E poi gli attacchi all’emancipazione, quando si ricordava alle donne il loro “bollettino di guerra” per avere ottenuto la libertà. E cioè che erano “incomplete, perdenti, sole disperate” (in Backlash: The Undeclared War Against American Women di Susan Faludi – 1991).
Ed è sempre sulla violenza del maschio che si è giocata la partita dall’inizio per marcare la differenza dei diritti, prima di arrivare al silenzio e alla messa in dubbio della credibilità. Fino al 1964, ad esempio, negli Stati Uniti era “impossibile che un uomo violentasse la moglie”, perché la violenza sulla compagna era da considerarsi una faccenda privata. Il concetto di molestie sessuali è nato soltanto negli anni Settanta eppure, riportava nel 1990 il Journal of the American Medical Association, “la violenza domestica è la principale causa di lesioni per le donne di età compresa tra i 15 e i 44 anni, più degli incidenti stradali, delle aggressioni a scopo di rapina e delle morti per cancro considerate complessivamente”. Da ricordare anche che delle 62 stragi “commesse con armi da fuoco negli Stati Uniti in tre decenni, solo una è stata compiuta da una donna” e che quasi “due terzi delle donne uccise con armi da fuoco vengono uccise dal partner o dall’ex partner”. E il premio Pulitzer Nicholas D. Kristof allarga il quadro oltre gli Usa: “In tutto il mondo le donne fra i 15 e i 44 anni hanno maggiori probabilità di morire o restare menomate a causa della violenza maschile che non a causa della somma complessiva di tumori, malaria, guerra e incidenti stradali”.
Scegliere di essere trattata con sufficienza è un’esperienza che una donna non sceglie di fare
Oltre ai dati, la società di oggi: la disparità salariale, la difficoltà (o impossibilità) ad accedere a ruoli di potere, universo ancora di dominio maschile. L’appalto totalizzante della cura dei figli e dei famigliari, anziani o disabili che obbliga anche a lasciare il lavoro. Scegliere di essere trattata con sufficienza è un’esperienza che una donna non sceglie di fare. Non vuole essere considerata “una pazza, una paranoica, una bugiarda patologica, una piagnucolosa che non capisce, che si fa solo per scherzare”. E quello dello scherzo è un altro modo per denigrare la sua versione, la sua esperienza. Tutte le donne sanno di cosa stiamo parlando. La strada da fare è ancora lunga, anche in Occidente. È la lotta perché vengano pienamente considerate esseri umani. Un obiettivo che si raggiunge solo insieme agli uomini.