di Davide Bonsignorio *
Dallo sciopero dei lavoratori Amazon durante il “Black Friday” alle rivendicazioni dei riders di Foodora e Deliveroo fanno notizia le vertenze che sempre più spesso scoppiano nelle aziende della “Net Economy” e “Gig Economy”anche perché, a dispetto della modernità delle imprese coinvolte, hanno per oggetto rivendicazioni quanto mai antiche, come la richiesta di un salario minimamente adeguato o ritmi di lavoro non massacranti.
E se nel centro distribuzione Amazon di Piacenza i lavoratori entrati in sciopero sono in gran parte regolarmente inquadrati come dipendenti (sia pure con una larga presenza di colleghi inviati da agenzie di lavoro temporaneo), i riders delle imprese di food delivery, inquadrati come co.co.co. (nel caso di Foodora) o collaboratori occasionali a ritenuta d’acconto (caso Deliveroo), chiedono in primo luogo proprio il riconoscimento della natura subordinata del loro rapporto di lavoro come premessa necessaria per avere accesso a tutele quali minimi contrattuali di retribuzione, limiti all’orario di lavoro, trattamento di malattia, tutele contro i licenziamenti ingiusti, copertura contributiva etc..
Del resto, come abbiamo evidenziato di recente, nella dichiarata intenzione di ridurre le figure contrattuali atipiche e di favorire la diffusione del lavoro dipendente a tempo indeterminato, il Jobs Act ha abrogato figure contrattuali come il contratto di lavoro a progetto che fungeva da disciplina di riferimento per le collaborazioni coordinate e continuative ed in realtà conteneva disposizioni (come l’art. 63 D. Lgs. 276/2003 modificato dalla Legge Fornero, che sanciva l’obbligo di garantire al lavoratore a progetto un compenso comunque non inferiore ai minimi salariali previsti per i lavoratori dipendenti con mansioni ed orario analoghi) che garantivano maggiori tutele anche ai segmenti più deboli del lavoro autonomo.
Oggi la tecnica scelta dal legislatore per tutelare questi lavoratori è quella di applicare direttamente la disciplina del lavoro subordinato ai lavoratori autonomi che rendono la propria prestazione solo personalmente e in modo integrato nella organizzazione produttiva dell’azienda, e cioè (art. 2 D. Lgs. 81/2015) a quei “rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalita’ di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
Proprio sull’interpretazione del concetto di “organizzazione dei tempi e del luogo di lavoro” si giocherà probabilmente il destino delle vertenze intentate in questi mesi dai riders che chiedono al Tribunale di Torino di essere riconosciuti come dipendenti.
Essi infatti offrono le proprie prestazioni all’azienda “loggandosi” alla piattaforma informatica, la quale affida a loro la consegna in base ad un algoritmo che li seleziona tenendo conto della loro vicinanza al luogo di ritiro e di consegna e della loro performance come numero e rapidità delle consegne precedentemente effettuate; proprio la facoltà del lavoratore di “sloggarsi” e quindi di autodeterminare il proprio impegno lavorativo viene invocata dalle aziende come prova della natura autonoma del rapporto, ma a parte i dubbi sulla effettiva esistenza di questa autodeterminazione (visto che i lavoratori meno “disponibili” sembra subiscano pressioni e si vedano assegnate meno corse), è la natura della prestazione strettamente personale ed il fatto che la piattaforma informatica aziendale indichi in modo vincolante tempi e luoghi di ritiro e consegna dei pasti, a fare ritenere verosimile (ma a quanto consta si stanno ancora attendendo le prime sentenze) l’applicazione della norma del Jobs act sopra indicata e quindi l’applicazione delle tutele proprie del lavoro subordinato.
Nel frattempo, un dato interessante è senz’altro costituito dalla combattività dimostrata dai lavoratori di queste aziende che, anche sfruttando a loro volta la tecnologia per superare le difficoltà nell’incontrarsi e coordinarsi, hanno utilizzato le chat e la rete per conoscersi, scambiarsi informazioni ed organizzare le azioni di mobilitazione sindacale una dimostrazione che la continua sottrazione di diritti e tutele finisce col mettere a nudo, anche in contesti solo apparentemente inaspettati, l’esistenza di un conflitto tra capitale e lavoro che di questi tempi è spesso acriticamente rimosso.
* Giuslavorista, socio Agi (Associazione giuslavoristi italiani). Esercito la professione di avvocato dalla parte dei lavoratori e dei sindacati; ho collaborato con diverse riviste specializzate del settore. Vivo e lavoro a Milano.