Fa sempre un certo effetto leggere sui titoli di coda di un film “executive producers Bob e Harvey Weinstein”. Succede al 35esimo Torino Film Festival, dopo l’ultimo frammento in nero di Wind River, diretto da Taylor Sheridan. Ed ironia del destino, visto che il film è molto bello, le centinaia di persone del cinema Massimo fanno scattare l’applauso all’opera in generale, quando il particolare vuole Weinstein Harvey a lettere cubitali su grande schermo. L’inciso è così d’obbligo. Perché al di là delle porcherie e nefandezze morali e penali di cui Harvey Weinstein è stato accusato, bisogna dire che il fiuto dell’impresa Miramax/The Weinstein Company per il buon cinema non è mai mancato.
Qui si segue la storia di una sorta di cowboy dei giorni nostri, un malinconico tracker (interpretato da Jeremy Renner) con moglie separata di origine pellerossa, immerso con la sua jeep, tuta mimetica e fucilone con mirino tra le tormente di neve intermittenti e copiose del Wyoming, in mezzo all’isolamento storico ed esistenziale di una riserva indiana. Il ritrovamento del cadavere di una ragazza della riserva, ad otto chilometri dal più vicino centro abitato, fa scattare le ricerche per omicidio e arrivare sul luogo una giovanissima agente dell’FBI (Elizabeth Olsen). C’è pochissimo di già visto in questo dramma/thriller trattenuto, vibrante, teso, e che infine esplode violento, scritto da Sheridan, dopo lo script di Sicario – diretto da Denis Villeneuve – e Hell or High Water – diretto da David Mackenzie. Qualcosa che ricorda il senso di colpa di una nazione e l’impossibilità di una redenzione morale, nonostante la giustizia da frontiera prenda corpo e giunga salvifica come una giusta punizione. Ma soprattutto in questo testo c’è un attenzione speciale alla difesa della donna (e su questo va detto, il marchio Weinstein è apparentemente e ulteriormente ipocrita), ad un rispetto quasi mistico per il loro coraggio e la loro vitalità in un contesto ambientale e culturale patriarcale, schiacciato tra castrante tradizione dei nativi e barbara imposizione di un disgustoso maschilismo.
Sempre una donna protagonista, sempre gli Stati Uniti, ovvero New York, ma questa volta con una produzione indipendente e lillipuziana. Parliamo di Most Beautiful Island, diretto, scritto e interpretato dall’attrice spagnola Ana Asensio, presente nel Concorso di Torino 35. Autentico tour de force stilisticamente cassavetesiano con al centro la slanciata e bella Luciana (la Asensio stessa, praticamente sempre in scena), una migrante con accento spagnolo che prova ad inserirsi in un contesto lavorativo normale nella Grande Mela. Ma attenzione: non c’è sogno o romanticheria alcuna nell’anima e nello sguardo della protagonista che in questo doppio ruolo trasla l’ansia trasmessa dal personaggio allo sguardo della regista. Nessun principe azzurro ma solo un bambino presumibilmente morto nel suo recente passato, un bel fisico da offrire in pasto al mondo del lavoro odierno che però concede solo qualche mansione degradante, Luciana si ritrova senza più un soldo: drammaticamente solitaria, aggrappata al mondo con un vecchio telefonino, zainetto sulle spalle dentro cui tiene un paio di scarpe col tacco e quattro carabattole affettive. Fino a quando l’amica Olga, altra stangona di origine russa, ex modella ora senza un lavoro fisso, la invita a sostituirla per un lavoro in cui deve semplicemente indossare un abito nero e fare le poche cose che vengono indicati da chi comanda e paga.
Luciana accetta per l’alto compenso di diverse migliaia di dollari previsto, ma si ritroverà in una specie di gioco mortale, in uno scantinato, con una borsetta che non si apre ma che deve obbligatoriamente portare con sé e tenere chiusa, in mezzo a nerboruti bodyguard e ad altre fanciulle come lei, ma soprattutto davanti ad un gruppo di abbienti e orrendi voyeur che godono a scommettere sulla vita altrui. Ammettiamo che un discorso del genere di ricatto sociale ed economico sul corpo di una donna da parte di un “sistema” cinico e disumanizzante non ce lo ricordavamo al cinema dai tempi di Ken Loach. Discorso semplice, senza troppe pretese di contenuto, Most Beautiful Island, film che la Asensio dedica al padre, è uno di quei film politici che lasciano il segno e ci mostrano cosa significhi il potere del denaro sui corpi e le anime di chi quei soldi e quel poteri non ce li ha, ma che vuole a tutti i costi sopravvivere degnamente. E che ci sia una donna per un’ora e mezza di film a subire questa violenza fa ancora più arrabbiare.