È il retroscena del biennio al tritolo che insanguinò il Paese tra il 1992 e il 1993 quello tratteggiato da Gianfranco Donadio nella sua audizione di quattro ore - e in parte secretata - davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Mattiello (Pd): "Forse i tempi sono maturi per una ricomposizione storica e politica di quei fatti e di quelle responsabilità"
Una tecnologia molto sofisticata nelle stragi del 1992. E la presenza definita come certa negli attentati dell’anno successivo a Roma, Firenze e Milano. E poi la presenza sullo sfondo del biennio al tritolo della Falange Armata, l’oscura sigla che rivendicava gli attentati della banda della Uno Bianca ma anche gli attentati di mafia, la formazione delle leghe meridionali indipendentiste, il ruolo di Gladio e quello della massoneria del Grande oriente d’Italia. È il retroscena del biennio al tritolo che insanguinò il Paese tra il 1992 e il 1993 quello tratteggiato da Gianfranco Donadio nella sua audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Quattro ore d’audizione – in parte secretata – in cui l’ex sostituto procuratore della Dna ha raccontato ai comissari che nel 1992 i mafiori erano già in grado di clonare i telefoni cellulari per schermarli. Una tecnologia utilizzata per organizzare la strage di Capaci, indagine sulla quale il magistrato ha lavorato ipotizzando l’esistenza di un “secondo cantiere“- diverso da quello preparato da Giovanni Brusca – per imbottire l’autostrada di tritolo e uccidere Giovanni Falcone, la moglie e gli uomini della scorta.
Donadio ha messo in fila i fatti più importanti che prendono vita in quello che il biennio fondativo della Seconda Repubblica, citando le denunce dell’allora gran maestro del Goi Giuliano Di Bernardo sul coinvolgimenti di ambienti della massoneria con i clan. Un racconto che comprende anche il grande business della droga, dominato almeno fino al ’93 da Cosa Nostra, e dei flussi di denaro da riciclare che conducono al nord, al ruolo emerso da alcune inchieste della Banca Rasini (dove lavorava il padre di Silvio Berlusconi), di Vittorio Mangano e di Marcello Dell’Utri.
“È un perimetro – dice il deputato dem Davide Mattiello – che ricorda quello della inchiesta sulla ndrangheta stragista della Dda di Reggio Calabria dell’estate scorsa, che non a caso pare essere stata fino a qui la Distrettuale che meglio ha saputo fare tesoro dei 36 atti di impulso che la Dna aveva prodotto negli anni in cui è stata guidata da Pietro Grasso. Un perimetro che ha un significato molto più pregnante rispetto alle pure gravissime ipotesi di reato per le quali si procede nel cosidetto processo Trattativa a Palermo: la mafia, unita nella strategia, non soltanto trovò in alcuni ambienti politico istituzionali orecchie sensibili ai propri lamenti, ma non fece tutto da sola, ci fu una concreta convergenza non solo di interessi, ma di uomini e mezzi estranei alla mafia. Forse i tempi sono maturi per una ricomposizione storica e politica di quei fatti e di quelle responsabilità ma bisognerà capire cosa succederà nella Direzione nazionale antimafia ora che a guidarla c’è l’ex procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho e che lì potrebbe tornare a lavorare Donadio. Ci sarà il tempo per la verità storica; oggi è ancora il tempo della verità processuale”. Dopo undici anni di lavoro in via Giulia, la procura generale della Cassazione aveva chiesto al Csm di aprire un procedimento disciplinare su Donadio. Il motivo Aveva inoltrato più di 600 richieste di informazioni alla polizia giudiziaria e utilizzato la procedura dei colloqui investigativi nei confronti di persone già sottoposte a indagini: secondo il pg della Cassazione tanto bastava per interferire nelle inchieste delle procure competenti.