L’uomo che desiderava il potere dagli anni dell’asilo, che rifiutava di incontrare il re alle 16 perché “a quell’ora faccio il riposino pomeridiano”, l’eroe prima odiato e poi amato in patria perché “giammai la svastica apparirà su Buckingham Palace”. Winston Churchill vincerà l’Oscar 2018 come miglior attore protagonista perché a resuscitarne vizi e virtù è uno dei più grandi interpreti del cinema britannico contemporaneo: Gary Oldman. Non importa quanto mimetica sia la sua trasformazione – 200 ore di trucco in totale, e si vedono tutte – per incarnare il più popolare primo ministro della storia del Regno Unito: il “suo” Churchill così caratteriale, vitale e personalissimo è il cuore pulsante del settimo lungometraggio di Joe Wright che, grazie anche alla performance di Oldman, ha confezionato il migliore titolo della sua filmografia, certamente superiore ai vari Orgoglio e pregiudizio ed Espiazione.
Programmato ieri fuori concorso in Festa Mobile al Torino Film Festival, Darkest Hour (L’ora più buia è il titolo italiano, uscita prevista il 18 gennaio) rappresenta la discesa agli inferi del più ambizioso, scaltro e capace statista inglese del XX secolo avvenuta dal 10 al 28 maggio 1940 quando si trovò a decidere le sorti del proprio Paese rispetto al conflitto in corso: arrendersi e negoziare con l’asse italo-tedesca, oppure continuare a combattere al fianco della Francia per evitare che il Regno Unito venisse occupato dai nazisti. Nella concitazione di pochi giorni e nella claustrofobia del War Cabinet allestito per il tempo di guerra, Churchill rieletto Primo Ministro con mille controversie e altrettanti nemici, mostrò al Paese la stoffa di un leader appassionato e fortissimo pur nelle sue contraddizioni.
Film dalla sceneggiatura cristallina e regia classicamente patinata, Darkest Hour si trova curiosamente ad apparire sulla scena cinematografica nella medesima stagione di Dunkirk di Christopher Nolan, con cui condivide i medesimi giorni d’ambientazione e parte della stessa vicenda osservati da punti di vista diversi: praticamente i due lungometraggi sono l’uno il controcampo dell’altro. Ma se il lavoro di Nolan afferma l’intensità di un cinema corale e illuminato di scenografie pirotecniche, quello di Wright conferma la meticolosità dell’indagine intima, orientata a porre l’uomo-individuo al centro del proprio destino. Da parte sua, Gary Oldman già candidato dall’Academy nel 2012 come protagonista de La talpa di Alfredson, tratto da John LeCarré, potrebbe a questo giro portarsi a casa la meritata statuetta dimostrando ancora una volta l’eccellenza britannica in termini non solo di capacità interpretative tout court, ma anche di ri-elaborazione di personaggi complessi e iconici realmente esistiti. Il suo Churchill esplode certamente di mimesi ma anche di tensione e carisma almeno quanto il Lincoln di Daniel Day-Lewis.
Quasi in chiusura – sabato sera saranno decretati i vincitori – il Torino Film Festival ha abbondantemente parlato l’inglese britannico. Numerose le produzioni, regie, interpretazioni o ambientazioni nel Regno Unito, come da sempre accade da quanto l’anglofila Emanuela Martini è alla guida: oltre a Darkest Hour (che comunque ha una produzione prevalentemente USA), si sono distinti il concorrente Daphne di Peter Mackie Burns, Dark River di Clio Barnard, Faithfull della francese Sandrine Bonnaire ma su un’icona pop indiscutibilmente British come Marianne Faithful, Final Portrait di Stanley Tucci, Grace Jones di Sophie Fiennes, il magnifico My Life Story di Julien Temple su “Suggs” dei Madness, Mary Shelley di Haifaa Al Mansour, e – non per ultimo – The Man Who Invented Christmas di Bharat Nalluri su una delle colonne portanti del romanzo inglese di tutti i tempi: Charles Dickens.