di Claudia De Martino *

L’opinione pubblica araba è percepita come fortemente antiamericana: l’America è tradizionalmente considerata un nemico del mondo arabo perché protettrice di Israele, fortemente interventista nella regione dal punto di vista militare e smaccatamente tacciata di velleità neocoloniali, almeno dal 2003 in poi (anno dell’invasione dell’Iraq). Tuttavia, se le cause dell’ostilità araba nei confronti degli Stati Uniti dovessero ridursi a motivi politici contingenti come le operazioni militari sbagliate compiute ultimi dieci anni, l’animosità araba sarebbe ancora temperabile, invece, come ben spiega nel suo saggio sull’antiamericanismo arabo la giornalista Azzurra Meringolo Scarfoglio (Il sogno antiamericano. Viaggio nella storia dell’opposizione araba agli Stati Uniti, Clueb edizioni, 2017), la profonda divisione tra le due culture ha origini molto più profonde, radicate e multidimensionali.

E’ stato proprio uno dei massimi ideologi del movimento dei Fratelli Musulmani, l’egiziano Sayyd Qutb, a scrivere nel 1948, dopo aver soggiornato per anni in America, un celebre saggio rivolto ai suoi confratelli che si intitolava “L’America che ho visto” in cui riduceva tutta la cultura americana a un piatto materialismo e alla mera soddisfazione fisica, senza alcuno spazio per la coltivazione di valori spirituali. All’interno del saggio di Qutb, fine intellettuale islamista, vi era una critica alla produttività industriale americana come frutto di una mentalità moderna che badava solo alla creazione di macchine ed oggetti, piuttosto che a mantenere l’adesione ai valori fondamentali dell’etica, del benessere spirituale e della coesione sociale. Qutb può essere considerato il precursore di uno dei principali filoni di critica anti-americana del mondo arabo: quello islamista, che non è affatto confinato ai soli Paesi arabi ma anzi si estende a tutto il mondo musulmano, trovando soprattutto nell’Iran post-rivoluzione del 1979 un solido baluardo. Nella visione di una certa parte dell’islamismo, cultura e politica si coniugano perfettamente nell’aggressiva strategia americana, che vorrebbe piegare tutto il resto del mondo ai suoi modelli sia comportamentali che produttivi, colpendo con sanzioni tutti i Paesi che le oppongono sistemi economici ed etici alternativi, come appunto la Repubblica islamica d’Iran.

Un secondo filone molto importante è quello della critica politica di matrice laica, che taccia gli Stati Uniti di collaborazionismo con tutte le dittature, anch’esse per lo più laiche, che hanno governato nella regione, ritardandone lo sviluppo e controllandone le relative popolazioni. Gli Stati Uniti che si propongono sempre come “il poliziotto del mondo”, sarebbero infatti una forza militare a sostegno dei poteri forti esistenti e fondamentalmente collusa con gli iniqui sistemi di governo imperversanti nella regione, sostenuti da imponenti apparati securitari che violano sistematicamente i diritti umani ma che pure ricevono generosi finanziamenti Usa grazie all’ignavia dei contribuenti americani. Un’appendice critica a questa riflessione è quella fornita da un noto autore come Ala al-Aswany, che ritiene che un certo antiamericanismo sia anche strumentalmente istillato nel popolo dagli stessi poteri forti della regione, che ritengono di poter fare leva su questa diffusa ostilità popolare a loro vantaggio quando gli Stati Uniti premono, al contrario, per attuare riforme democratiche o limitare la corruzione dei regimi. Nonostante, come fa bene a sottolineare il libro, gli slogan delle recenti rivolte arabe (2011) non abbiano affatto ascritto gli Stati Uniti, bensì le varie dittature nazionali, a principali responsabili dei mali da cui sono afflitti i loro Paesi, il comportamento ambiguo dell’amministrazione Obama verso i movimenti di protesta espressi dalle piazze arabe non è sfuggito alle opinioni pubbliche locali, che hanno pensato che ancora una volta Washington fosse disposto a sostenere Ben Ali e Mubarak contro le loro popolazioni.

Vi è poi un altro filone fondamentale della critica anti-americana da parte araba che si rifà a tesi complottistiche sulla presunta spartizione in atto del Medio Oriente, che incorpora una forte opposizione al sionismo ma non si riduce ad essa. Molti arabi ritengono che Israele sia stato uno Stato sapientemente e cinicamente introdotto a forza in una regione a maggioranza araba per dividerla in componenti etniche e settarie, scorporandone e minandone l’unità originaria. Israele sarebbe dunque ancora oggi la “madre di tutti i problemi”, ovvero il primo tentativo occidentale di creare una propria roccaforte nel cosiddetto dar-al-Islam, ovvero i Paesi a maggioranza musulmana, con l’assenso e il beneplacito di altre monarchie colluse della regione, come i Sauditi, che avrebbero non solo accettato la fondazione dello Stato d’Israele fin dall’inizio, ma anche accolto basi militari americane sul proprio territorio, nonché più recentemente collaborato con gli Stati Uniti per la spartizione della Siria. Appendice di questa visione coloniale della strategia Usa sarebbe anche la tesi complottistica del “divide et impera” tra cristiani e musulmani arabi (e anche altre etnie e minoranze religiose della regione) operato dai fondamentalisti islamici, che in realtà sarebbero sostenuti dagli stessi Stati Uniti, primi beneficiari di questa divisione settaria. L’imperialismo americano avrebbe infatti interesse a creare una “questione cristiana” in Medio Oriente che storicamente non sarebbe mai esistita.

Il libro della Meringolo è, dunque, molto significativo perché traccia l’evoluzione – o forse la parabola discendente – della politica e della reputazione americana nella regione, descrivendo Obama come un realista che ha tentato di smarcarsi dalla politica del predecessore senza riuscirci pienamente e l’attuale Presidente Trump come un “uomo nuovo”, che in campagna elettorale ha posto però una particolare enfasi sulla lotta al terrorismo, nelle sue parole ricondotto principalmente ad una matrice islamica. Negli Stati Uniti, la diffidenza verso il mondo arabo e l’islamofobia sarebbero in crescita, mentre al contempo la popolarità americana sarebbe in crollo presso le opinioni pubbliche di questi Paesi. La fotografia è quella di due traiettorie completamente divergenti, in cui la politica statunitense utilizza toni sempre più accesi contro una cultura che ritiene ad essa estranea ed ostile, nel momento stesso in cui i movimenti islamici puntano il dito sugli Stati Uniti come i principali responsabili dello stato di smarrimento, povertà e violenza in cui versa la regione.

Un paradosso che spiega come l’inimicizia araba del mondo arabo verso gli Stati Uniti venga costantemente nutrita non solo dalle tesi cospirative di entrambi, ma anche dalla difficoltà di bilanciare un rapporto di potere squilibrato tra un Occidente avvertito come prevaricatore ed un mondo arabo lacerato da vecchie e nuove ferite aperte, nel silenzio preoccupante di un’Europa introversa che non si occupa più di sanare questa relazione asimmetrica.

*ricercatrice ed esperta di questioni mediorientali

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